ROMA. SOCIALISTI EUROPEI: CITTÀ NON PARTE, SERVE RIMPASTO GIUNTA

(DIRE) Roma, 19 ott. – “Roma non parte, non è un semplice slogan, ma la triste rappresentazione delle condizioni in cui versa la nostra città dopo due anni di amministrazione Gualtieri.

Quello che manca alla Capitale d’Italia, è una visione, un progetto, un’idea di futuro. Un sogno. Cosa vogliamo essere tra 3, 5, 10 anni? A questa domanda bisogna dare una risposta. Invece, la città è ferma e così non andiamo da nessuna parte.

A preoccupare di più il Comitato romano dei Socialisti Europei, è la gestione dei rifiuti, dopo un primo spot iniziale, più niente, si è tornati alla peggiore epoca Raggi, cassonetti pieni e montagne di spazzatura a fare da decorazione.

Ma il problema non finisce qua, in primis i trasporti, non si sta investendo abbastanza sulla cura del ferro, invece dei tram a sede esclusiva e metropolitane efficienti, abbiamo gare deserte e tram fermi.

Anche semplici azioni come tenere aperte le metropolitane di notte e durante i week-end, sarebbe un segnale importante, così come chiesto dai Socialisti Europei di Roma.

Ma niente un breve annuncio da parte del Sindaco più di un anno fa e poi niente. E poi ancora, i cantieri a rilento per il Giubileo, l’Expo che vacilla, i taxi fantasma e i fondi del Pnrr che rischiano di non essere utilizzati nella loro interezza.

Per noi Socialisti Europei, che ci siamo fortemente impegnati per l’elezione del Sindaco Roberto Gualtieri, denunciare questa situazione drammatica non è facile, e ha comportato una sofferta discussione interna, ma la verità è sempre rivoluzionaria, e qui va detta: Roma non parte, anzi torna indietro. Il tempo per recuperare c’è ma serve un immediato cambio di passo, altrimenti la risposta dei cittadini romani sarà lapidaria e senza appello.

Data la gravità del problema il comitato romano dei Socialisti Europei ha deliberato, di lanciare un appello pubblico al Sindaco Gualtieri, avviare immediatamente una profonda revisione, serve un rimpasto di Giunta. Presto lanceremo una campagna per sensibilizzare i cittadini e le cittadine romane su questi temi”.

Così in una nota il Comitato romano dei Socialisti Europei, dopo la riunione del Direttivo romano tenutosi ieri sera.

GRAZIE EUROPA

L’Europa cambia passo, da paladina dell’austerity a quella della solidarietà, dalla gestione fredda e grigia dei burocrati a quella della politica. 750 miliardi di euro per aiutare la ripresa economica dei Paesi più colpiti dalla pandemia del Codiv-19 di cui, tra prestiti e sussidi, 209 sono per l’Italia. Grazie a Sassoli, Gentiloni e il ministro Provenzano e a tutti quelli che non hanno mai tentennato nei loro atteggiamenti e nelle loro convinzioni europeiste. La grande statura della Merkel e di Macron ha certamente aiutato. Non era facile far scordare le posizioni populiste e anti europee del governo Conte, Salvini e Di Maio fino al non remoto “FAREMO DA SOLI” del Conte nuovo. Un’occasione non ripetibile per dar vita a un nuovo modello di sviluppo più umano, più solidale e più attento all’ambiente. Un nuovo modello che, purtroppo, ancora non si vede all’orizzonte. Sarà proprio la politica che dovrà iniziare il suo percorso. Questo è il difficile compito che una nuova e diversa sinistra dovrà svolgere, con serietà e caparbietà, per misurarsi con il futuro.
Voglio ricordare le parole che mia madre accompagnava sempre quando mi dava i soldi della paghetta: ”Non sperperarli e fanne buon uso altrimenti non te li do più” ed io prontamente andavo a ‘buttarli’ per giocare al Flipper.
Ma, la mamma è sempre la mamma: l’Europa no.

INVALIDI CIVILI TOTALI: LA LEGGE NON ASSICURA “I MEZZI NECESSARI PER VIVERE”

I 285,66 euro mensili, previsti dalla legge per le persone totalmente inabili al lavoro per effetto di gravi disabilità, non sono sufficienti a soddisfare i bisogni primari della vita.

È perciò violato il diritto al mantenimento che la Costituzione (articolo 38) garantisce agli inabili.
(…)La Corte ha ritenuto che un assegno mensile di soli 285,66 euro sia manifestamente inadeguato a garantire a persone totalmente inabili al lavoro i “mezzi necessari per vivere” e perciò violi il diritto riconosciuto dall’articolo 38 della Costituzione, secondo cui “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”.


È stato quindi affermato che il cosiddetto “incremento al milione” (pari a 516,46 euro) da tempo riconosciuto, per vari trattamenti pensionistici, dall’articolo 38 della legge n. 448 del 2011, debba essere assicurato agli invalidi civili totali, di cui parla l’articolo 12, primo comma, della legge 118 del 1971, senza attendere il raggiungimento del sessantesimo anno di età, attualmente previsto dalla legge.
(…)
La Corte ha stabilito che la propria pronuncia non avrà effetto retroattivo e dovrà applicarsi soltanto per il futuro, a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale.

Resta ferma la possibilità per il legislatore di rimodulare la disciplina delle misure assistenziali vigenti, purché idonee a garantire agli invalidi civili totali l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione.

PIOVE! GOVERNO LADRO

Rimane abbastanza difficile considerare Il governo Giallo-Rosso che ha la sua centralità nell’intesa M5S-PD, come un governo di centrosinistra. Siamo molto lontani. Siamo anche lontani ad avvicinarlo a una sorta di “compromesso storico” degli anni 2000. Il giustizialismo, il populismo, l’assistenzialismo fine a se stesso, il trasformismo sono da sempre nemici del progresso che rimane la ragione della sinistra.

La storia della sua nascita, i suoi comportamenti privi di una anche minima progettualità, la debolezza rasente, il ridicolo dei suoi dirigenti, il suo operare nei comuni dove governano, come pure nel governo Conte, che oggi rimane in piena continuità col Conte1, di fatto rende il Movimento5Stelle, a pieno titolo, un partito di destra fortemente incline a una deriva fascista e con poco rispetto dei valori della nostra costituzione.

Il PD per i suoi limiti strutturali, per l’eterogeneità dei suoi dirigenti e con la sua astratta identità non riesce ha trasmettere nessuna idea-forza per uno sviluppo sostenibile, per una nuova giustizia sociale, per un vero garantismo, per una nuova politica ambientale, per una decisa difesa dei diritti civili nuovi e vecchi e per una vera e forte tutela del lavoro e della sua dignità, per vecchie e nuove generazioni.

La teoria che vuole giustificare la nascita del Conte1, come unico argine contro la probabile nascita di un governo Salviniano, proprio per queste sue debolezze e contraddizioni, rischia invece di faticarne la formazione.

L’incapacità di trasmettere fermezza nel cambiamento, proprio nel corso di una crisi economica aggravata, anche, dalla pandemia, rischia di travolgerci tutti e non sarà sufficiente fare “il fumo con la manovella” come con gli ‘stati generali’ o con le manipolazioni dell’informazione per contenere e gestire la rabbia sociale che inevitabilmente crescerà.

Questa non vuole essere un’asettica critica ma una preoccupazione reale per le forze che ancora si definiscono di sinistra.


I decreti sicurezza di Salvini, il permanere della legge Bossi-Fini, l’assistenzialismo statale fino a se stesso, l’opposizione allo Ius Soli, la mancanza di una nuova visione globale dell’economia e del suo sviluppo, gli oscillanti rapporti con l’Europa, l’assenza di protagonismo e ruolo per nuovo internazionalismo, la mancanza di una ‘idea di Paese’; sono tutti problemi che richiedono un impegno, forte e urgente, da assumere con coraggio e senza tentennamenti proprio da chi ancora crede alla forza di un riformismo del XXI secolo.


Per fare le riforme vere, bisogna riconquistare un’egemonia culturale, come quella che i democratici esercitavano sul Paese dal dopoguerra alla fine del secolo scorso.

Nulla sarà come prima, il futuro sarà pieno di novità anche strutturale per la politica, per l’economia e per la vita di ognuno.


Stato e mercato non possono continuare a essere considerati due soggetti contrapposti e in conflitto quando, invece, devono essere gestiti e fatti funzionare per lo stesso obiettivo: cioè la crescita economica e il rafforzamento del welfare in un sistema economico che con il dopo Covid-19 sarà comunque diverso in Italia, in Europa e nel mondo.

Lo Stato deve saper investire su ‘economia ambientale’, chiudere con l’energia ricavata dai fossili, progresso tecnologico, cultura, salute, benessere delle persone e sicurezza sociale. Il mercato deve essere aiutato ad adeguarsi a queste nuove strategie.

Un governo serio e riformista deve saper rinunciare con coraggio a quelle marchette elettorali, che propongono massicci interventi di denaro verso aziende ormai in crisi irreversibile, solo per rincorrere facili consensi elettorali, alimentando pericolose speranze per i lavoratori ben sapendo che i problemi di questi saranno solo rinviati.

Bisogna investire in nuove infrastrutture anche digitali, in istruzione e formazione che sappia affrontare il cambiamento dei nuovi equilibri mondiali e le sue evoluzioni. Investire subito, anche grazie ai contributi provenienti dall’Europa, per una riconversione tecnologica, ecologica ed anche industriale del nostro attuale sistema economico.

Chi oggi perde il lavoro deve essere aiutato con un reddito vero e sufficiente per vivere ma deve essere anche accompagnato con una credibile formazione verso nuovi impegni lavorativi.

Non crediamo che questo governo sia capace di tutto ciò.

Se si continua con queste improvvisazioni e pressapochismi senza principi, il rischio dell’acutirsi della rabbia sociale diventa sempre più concreto.
S.E.

Dopo 34 anni dall’uccisione di Olof Palme sappiamo: come, chi, ma non perché!

Stig Engstrom, un tossicomane con precedenti penali, legato agli ambienti della destra svedese ma senza particolari ruoli è stato riconosciuto come esecutore materiale, nel febbraio del 1986, dell’omicidio del leader socialdemocratico Palme.

Engstrom muore suicida nel 2000.


Olof Palme, leader tanto carismatico quanto controverso. Punta di riferimento della sinistra europea, convinto sostenitore di un nuovo welfare (dalla culla alla tomba) percorribile attraverso un nuovo sistema di redistribuzione della ricchezza. Fortemente avversario dell’apartheid in Sudafrica sempre vicino ai popoli in lotta per la libertà e l’autodeterminazione.

Un vero riformatore, odiato e avversato dalla destra svedese come da quella europea e internazionale (italiana compresa). La gestione dell’indagine, con tutti i colpi di scena susseguitasi ancora oggi lasciata ombre e dubbi sui servizi segreti svedesi e non solo.

Quest’affrettata chiusura dell’indagine certamente non aiuta alla ricerca della verità.

L’omicidio di Olof Palme resta una ferita ancora aperta!
S.E.

BONOMI (CONFINDUSTRIA): AVANTI GUARDANDO INDIETRO.

La Confindustria, che tanto ruolo e tanto peso ha avuto nella storia d’Italia tanto da condizionarne, spesso e molto, il suo corso. Sempre ha saputo tutelare gli interessi dei suoi associati anche a discapito di quelli nazionali.

Solo quando essa con il sindacato e la politica suoi contraltari, seppe istaurare un dialogo, conflittuale ma costruttivo l’Italia ha iniziato a vivere una gloriosa stagione di riforme dove la politica ben ha svolto, attraverso i  vari governi, il suo ruolo di punto di riferimento e di mediazione costruttiva.

Oggi in piena crisi economica, sociale e sanitaria il neo presidente della Confindustria Bonomi, non trova di meglio che ripudiare la politica e la sua fondamentale funzione. una perfetta sintonia con il populismo e il qualunquismo ormai dilagante nel nostro Paese.

Una posizione senza prospettiva e senza possibilità di dialogo neppure con il sindacato.

Un gravissimo errore. Un disprezzo per la politica che in Bonomi viene da lontano.

Il presidente della Confindustria non risparmia anatemi alla politica e senza mezzi termini “vede la politica tutta ripiegata su se stessa e sui suoi dividendi elettorali”, eppure proprio dalla politica, quella vera e sana, possono nascere nuove prospettive anche per chi lui rappresenta.

Quando si invocano tempestive riforme per salvare il Paese, queste non possono prescindere dall’indicazione dei veri problemi e delle loro risoluzioni.

Un percorso unitario valido per tutti.

Deve essere la politica a indicare la strada da percorrere, guardando ad un nuovo modello di sviluppo che, dalle ceneri dell’attuale, dovrà confrontarsi con il nuovo sistema economico mondiale che inevitabilmente nascerà dopo la fine della pandemia.

Il neo liberismo, tanto caro a Bonomi, ha mostrato tutti i suoi limiti. Una nuova stagione di riforme che non investiranno solo l’economia e il sociale del nostro Paese ma, interesseranno l’Europa, l’Occidente e l’intero pianeta.

Un nuovo futuro verso il quale la politica non può che esserne protagonista, con cui tutti dovranno farne i conti e adeguarsi. Confindustria compresa.

SOCIALISTI PERCHE’ EUROPEI! EUROPEI PERCHE’ SOCIALISTI!

Non tutto sarà come prima! Una profezia, spesso usata e abusata, prima per spiegare il dopo “caduta del muro di Berlino” oggi il dopo” pandemia” dovuta al Covid-19.

La prima trovava le sue argomentazioni principalmente nella fine delle ideologie. La seconda nel suo sistema economico.

Oggi proprio l’ordine internazionale con i suoi paradigmi economici e sociali è entrato in crisi. La pandemia, e non solo, ne sta accelerando la disfatta.

Una globalizzazione incontrollata, la debolezza dei gruppi dirigenti e un neoliberismo selvaggio, inaspriscono i conflitti tra nazioni e popoli, che per la fragilità delle nostre società, fanno riaccendere pericolosi focolai di nazionalismo fino a temere di nuovi conflitti bellici.

Già con il  neoliberismo, ormai dominante, è entrato in affanno il welfare. Le differenza sociali tra individui e popoli sono in aumento. Il Codiv-19, oggi, sta dando il colpo di grazia all’intero sistema cosi come eravamo abituati a viverlo.

Le relazioni interpersonali sono sottoposte a rapidi e forti cambiamenti come le nostre abitudini e stili di vita. Il nostro rapporto con la salute, con il lavoro, il nostro benessere tutto cambia.

La finanza, il sistema produttivo, l’intera economia sta vivendo, o meglio, sta subendo questa crisi.

Tutti e tutto ne saranno travolti.

Sarà, invece, proprio qui che dobbiamo misurare la capacità delle forze progressiste e socialiste in particolare, di individuare una via d’uscita per un nuovo equilibrio più umano e di più lunga durata. Una emozionante sfida.

Una grande occasione per un reale cambiamento dell’intero sistema. La nostra vita, i nostri interessi, i nostri valori andranno incontro a profondi cambiamenti con una priorità per la salute, la cultura, l’ambiente e la felicità personale e collettiva, la pace,  e l’abolizione della fame e della povertà .

Nulla potrà garantire che tutto questo non si incammini  verso una involuzione negativa e pericolosa e che tutto andrà peggio. Molte e forti saranno le resistenze al  cambiamento.

Tra queste, non sono di secondaria importanza, l’enorme acquisizione di dati personali, aumentata anche per gestire il coronavirus, il controllo dei social, dei mezzi di informazione e dello sviluppo della cultura.

Basti osservare quanto peso hanno sulle coscienze, sia deboli che preparate, le Fake News.

Un controllo e una manipolazione che oltre ad aumentare  l’occasioni di profitto, possono essere usate per fini politici da una ristrettissima oligarchia.

Oggi gli individui e le stesse società sono più liquide ma più fragili e precarie, con sempre più scarsa capacità di difesa e di produzione di anticorpi.

Una società debole, culturalmente ferma, con una classe dirigente improvvisata e inconsistente, dove tutti nessuno escluso, hanno finito per ricusare la politica per dar voce al populismo.

Un vero cancro per la democrazia che se non fermato genera metastasi.

Se alcuni stati specie dell’Asia hanno saputo intervenire più prontamente e più efficientemente al contrasto del Covid-19 lo devono proprio nel loro minore individualismo, la loro maggiore coesione sociale e l’esistere di reti comunitarie ancora forti.

Mentre da noi, in occidente, l’incontrollato liberismo ha finito per indebolire la  sfera pubblica e le sue capacità d’intervento.

Una debolezza  che da tempo ci ha portato ad avere non solo una economia di mercato ma una società di mercato, con le sue  priorità dove la tutela della salute degli uomini e della natura sono ormai secondarie e sempre meno importanti.

L’Occidente viveva nell’illusione di rappresentare la centralità mondiale che, seppur con molte contraddizioni, aveva il suo nucleo nell’alleanza tra Stati Uniti e Europa.

Questa pandemia ha scoperchiato la crisi del sistema occidentale nella sua interezza. Un nuovo ordine mondiale si sta autonomamente organizzando e non si può escludere che troverà la sua centralità proprio nella Cina con un importante ruolo anche del continente africano.

Qui l’Europa vive il suo momento più difficile.

Questa Europa cosi come la stiamo vivendo non  è in grado di garantire sistemi di protezione sociale e sanitaria per effetto dell’insistenze di politiche d’austerità.

Tutti effetti del dopo Maastricht con la sua egemonia liberista, che impone vincoli alla spesa pubblica e il blocco degli aiuti di stato, senza nessun obiettivo di crescita ne di aumento dell’occupazione.

L’arretramento dell’intervento  pubblico nel campo della ricerca, dell’innovazione, della cultura e dei sistemi sanitari produce solo guasti spesso irreversibili.

La globalizzazione e l’apertura di nuovi mercati hanno accelerato la sua crisi accentuando tutte le sue debolezze.

L’Europa non ha saputo  riformarsi.

Ora dovrà dimostrare, per continuare ad esistere,  tutta la sua voglia e la sua  capacità  di mettere in campo un grande programma sociale, di ripresa economica, di trasformazioni, financo a rimodellare il suo assetto istituzionale.

Oggi è forte ed attuale l’idea di dar vita agli “STATI UNITI D’EUROPA”.

Non potrà esserci  ripresa  senza riduzioni delle diseguaglianze e la cancellazione ogni povertà.

Una sfida epocale dalla quale dipenderà non solo il suo futuro ma quello del mondo intero.

Non la fine della globalizzazione  ma un nuovo  ordine mondiale per renderlo più umano, già nel nostro continente. Un monito e un ultimatum anche al Partito Socialista Europeo che molto può ancora fare.

L’alternativa è  pericolosa perché porta all’autarchia, al rinchiudersi nei propri confini alimentando diffidenza e ostilità tra popoli. La fine del sogno europeo. François Mitterrand, in una Francia nazionalista per antonomasia, già allora sosteneva con forza che il “Nazionalismo è Guerra”.

Da qui l’urgenza  di rimuovere tutti i freni che ostacolano una forte e totale integrazione tra noi europei ma, anche con il resto del mondo. Una rivoluzione culturale e politica capace di mettere al centro le persone. Occorre  superare i tabù, primo quello di credere che non c’è alternativa al pensiero unico liberista. L’Italia può assumere ora  un ruolo significativo.

La risposta non potrà essere certo  ’Prima gli Italiani’ perché questo giustificherebbe ‘Prima i Tedeschi’ o gli Olandesi o gli Ungheresi con l’unico effetto di alimentare un incontrollato egoismo nazionalista.

Chiusa la polemica sull’entità e dei modelli degli aiuti economici che l’Europa mette in campo per aiutare i singoli Stati ad uscire dalla crisi, ora l’attenzione deve essere rivolta, con forza e senza tentennamenti alla qualità dei nuovi interventi sociali e ambientali per un nuovo sviluppo economico e sociale. I mesi che abbiamo di fronte sono cruciali per costruire un nuovo e diverso  futuro.

Forse  dalla pandemia ne usciremo o quanto meno dovremmo abituarci a convivere con il virus. In attesa di un vaccino che dovrà essere per tutti disponibile.

Certo superata la pandemia è vero “Non tutto sarà come prima!”.

Sarà  compito nostro, dei Socialisti, del PSE più di altri, costruire le basi per un nuovo sistema di relazioni internazionali, economiche e politiche e umane. 

Dalle due sponde dell’Atlantico deve crescere una nuova coalizione democratica, progressista, riformista e socialista che si accrediti come gestore della nascente fase dello sviluppo mondiale, cambiando anche i suoi attuali paradigmi di riferimento.

La nuova globalizzazione dovrà essere gestita e non subita, attraverso una   diversa visione qualità dello sviluppo che eviti il ritorno a vecchi conflitti e improvvise regressioni economiche e sociali. Un ordine nuovo valido non solo per l’occidente. Una nuova   governance del mondo. Un nuovo equilibrio, un nuovo asse di dialogo e di rapporto con l’intero mondo e con tutti i popoli.

Principalmente con la Cina.

Per fare questo abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente orgogliosa dei valori della nostra democrazia ma che sappia comprendere e rispettare i valori degli altri.

Sarà qui che ci giochiamo la possibilità concreta di dare un futuro all’idea socialista. Il PSE, i socialisti tutti lo possono fare lo debbono fare.

Atlantide Di Tommaso

Una storia lunga oltre un secolo

Il Partito Socialista Italiano (PSI) è stato un partito politico italiano di sinistra.

A parte la breve esperienza del Partito Socialista Rivoluzionario Italiano, che tenne il suo primo Congresso Nazionale a Forlì nel 1884, è il più antico partito politico in senso moderno e la prima formazione organizzata della sinistra in Italia, oltre ad aver rappresentato anche il prototipo del partito di massa.[27] Alla sua fondazione nel 1892 a Genova nella sala dell’associazione garibaldina Carabinieri genovesi adottò il nome di Partito dei Lavoratori Italiani. Successivamente a Reggio Emilia nel 1893 il nome venne cambiato in Partito Socialista dei Lavoratori Italiani mentre al congresso di Parma del 1895 assunse il nome definitivo di Partito Socialista Italiano.

Durante il regime fascista (in particolare dopo la messa al bando di tutti i partiti tranne il Partito Nazionale Fascista) continuò la sua attività nella clandestinità mentre la direzione del partito in esilio in Francia tentava di mantenere i contatti con i nuclei clandestini e d’influire sulla vita politica italiana, denunciando all’opinione pubblica europea e statunitense i crimini del regime. Partecipò alla guerra civile spagnola con propri esponenti nel Battaglione Garibaldi e durante la seconda guerra mondiale collaborò con il movimento partigiano nella Francia occupata dai nazisti. In Italia dopo la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 partecipò al movimento di Resistenza, essendo presente nei Comitati di Liberazione Nazionale centrale e locali e organizzando proprie formazioni partigiane denominate Brigate Matteotti. Dopo la fusione con il Movimento di Unità Proletaria avvenuta nell’agosto 1943 assunse il nome di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, per poi ritornare al nome precedente nel 1947 a seguito della scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini, dalla quale ebbe origine il Partito Socialista Democratico Italiano. Alle elezioni politiche del 1948 il PSI decise di presentare una lista comune con il Partito Comunista Italiano, costituendo il Fronte Democratico Popolare, che fini in seconda posizione e uscì sconfitto dalla Democrazia Cristiana. Nonostante ciò e la mancata elezione di molti parlamentari socialisti nelle liste frontiste, il partito mantenne l’alleanza con i comunisti ancora per tutti gli anni cinquanta del XX secolo.

All’inizio degli anni sessanta, anche a seguito delle aperture di capi politici democristiani come Amintore Fanfani e Aldo Moro, si aprì una stagione di confronto programmatico tra centristi e socialisti che portò alla nascita dei primi governi di centro-sinistra. In polemica con questa decisione della maggioranza del PSI di collaborare con la Democrazia Cristiana nel 1964 la sinistra più radicale e ortodossa interna al partito se ne distaccò per formare una nuova formazione politica che rispolverò il nome di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria. Nel 1966 il PSI e il PSDI decisero di riunificarsi nel PSI-PSDI Unificati, noto anche con la denominazione di Partito Socialista Unificato. A causa del cattivo risultato elettorale conseguito alle elezioni politiche del 1968 l’unità socialista durò meno di due anni e il 28 ottobre 1968 riprese la denominazione di PSI mentre la gran parte della componente socialdemocratica diede vita nel luglio 1969 al Partito Socialista Unitario, che nel febbraio 1971 ridiventò Partito Socialista Democratico Italiano.

L’azione politica del PSI fu basata al momento della sua fondazione su una concezione del socialismo di tipo marxista classico in forte polemica con repubblicani e anarchici. Da una concezione dapprima più ortodossa e schematica si affermò poi un revisionismo del marxismo con una forte componente massimalista contrapposta a una importante componente riformista fortemente presente nel gruppo parlamentare, nel sindacato CGdL e nel movimento delle cooperative e delle società di mutuo soccorso. Nel 1921 al XVII Congresso a Livorno una parte della componente massimalista uscì dal partito e diede vita al Partito Comunista d’Italia in sostegno alla rivoluzione d’ottobre. La questione del rapporto con i comunisti contraddistinse tutto il periodo dagli anni trenta al secondo dopoguerra fino agli anni sessanta, quando il partito si avvicinò sempre più alle posizioni della socialdemocrazia europea, soprattutto con le ridefinizioni ideologiche successive all’affermazione della linea autonomista dopo la denuncia dei crimini di Iosif Stalin durante il XX Congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria del 1956. Questa evoluzione ideologica contribuì in campo politico alla creazione di un’alleanza tra il centro egemonizzato dalla DC e la sinistra rappresentata dal PSI, detta centro-sinistra organico, che fu alla base di molti governi della cosiddetta Prima Repubblica. Dopo il fallimento della riunificazione con i socialdemocratici nel 1968 e l’entrata in crisi della formula del centro-sinistra a seguito della nascita della contestazione studentesca e del protagonismo operaio nelle lotte degli anni settanta il PSI con il segretario Francesco De Martino elaborò nel 1974 la strategia della alternativa di sinistra che avrebbe dovuto mandare all’opposizione la DC e portare al governo la sinistra unita. Tale strategia entrò in rotta di collisione con quella del compromesso storico lanciata dal segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer all’indomani del golpe in Cile nel 1973.

A partire dagli anni settanta si affermò nel partito una nuova posizione ideologica volta a riscoprire la tradizione socialista non marxista e non bolscevica, culminata con la nomina di Bettino Craxi a segretario nel 1976.[28] A seguito di questa svolta ideologica venne gradualmente modificato il simbolo del PSI, sostituendo alla falce e martello l’immagine ottocentesca del garofano rosso. Successivamente a seguito della caduta del comunismo nei Paesi dell’est europeo nel 1989 venne modificata la denominazione stessa del partito in Unità Socialista – PSI, con ciò auspicando una riunificazione tra i socialisti e la componente riformista dell’ex PCI. A seguito della crisi dei partiti tradizionali conseguente alla vicenda di Tangentopoli che colpì duramente il PSI sia dal punto di vista politico-elettorale sia finanziario il partito venne messo in liquidazione nel 1994, determinando la diaspora socialista con la nascita di varie formazioni politiche, divise circa l’adesione alla coalizione di centro-destra o a quella di centro-sinistra, secondo il nuovo sistema bipolare della cosiddetta Seconda Repubblica, favorito dall’introduzione della nuova legge elettorale maggioritaria del Mattarellum.

Dal 1994 al 2009 si sono succeduti nell’ambito del centro-sinistra i Socialisti Italiani e dal 1998 i Socialisti Democratici Italiani, che nel 2005 diedero vita con i radicali alla lista, e ipotizzato futuro partito, della Rosa nel Pugno. Nel 2007 l’SDI promosse insieme ad altre forze politiche a vario titolo collegate con la storia del socialismo italiano ed europeo la Costituente Socialista che diede vita al rinnovato Partito Socialista, che nel 2009 ha ripreso l’originaria denominazione di Partito Socialista Italiano, accordatagli insieme alla proprietà dei vecchi simboli del partito dall’ultimo liquidatore del PSI.

Indice

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Origini del movimento socialista in Italia[modifica | modifica wikitesto]

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Targa commemorativa fondazione Partito Socialista dei Lavoratori Italiani – Genova – Salita dei Pollaioli 17 r – locali ex trattoria Garofano RossoIl filosofo e anarchicoMichail Bakunin

In Italia la crescita del movimento operaio si delineò sulla fine del XIX secolo. Le prime organizzazioni di lavoratori furono le società di mutuo soccorso e le cooperative a fine solidaristico di tradizione mazziniana. La presenza in Italia dell’esponente anarchico Michail Bakunin dal 1864 al 1867 diede impulso alla nascita delle prime organizzazioni socialiste-anarchiche, ma aperte anche a istanze più generalmente democratiche e anche autonomiste. Nel 1872 nella Conferenza di Rimini venne costituita la Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavoratori di ispirazione bakuninista. L’episodio di iniziativa anarco-socialista più noto fu nel 1877 il fallito tentativo di un gruppo di anarchici capeggiati da Errico Malatesta di far sollevare i contadini del Matese.Il periodico socialista La Plebe

L’anima più moderata, guidata dal romagnolo Andrea Costa (che da un’iniziale adesione all’anarchismo era progressivamente passato al socialismo evoluzionista), sosteneva invece la necessità di incanalare le energie rivoluzionarie in un’organizzazione partitica disposta a competere alle elezioni. Tra i più convinti sostenitori di questa linea vi erano Enrico Bignami e Osvaldo Gnocchi-Viani, fondatori nel 1876 della Federazione Alta Italia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e nel 1882 del Partito Operaio Italiano con la rivista La Plebe (di Lodi), alla quale poi si affiancarono altre pubblicazioni.Andrea Costa fu il primo deputato socialista d’Italia

Nel 1879 Costa, uscito dal carcere, si trasferì a Lugano, in Svizzera. Qui scrisse la lettera intitolata «Ai miei amici di Romagna» in cui indicava la necessità di una svolta tattica del socialismo, che doveva passare dalla «propaganda per mezzo dei fatti» a un lavoro di diffusione di principi che non avrebbe presentato risultati immediati, ma avrebbe ripagato sul medio periodo. La lettera fu pubblicata nel numero 30 del 3 agosto 1879 de La Plebe.

La sua presa di posizione determinò nel movimento socialista italiano una prima separazione dei socialisti dagli anarchici. Nel 1881 Costa organizzò il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, che sosteneva, fra l’altro, le lotte dei lavoratori, l’agitazione per riforme economiche e politiche, la partecipazione alle elezioni amministrative e politiche.

Il partito di Costa incontrò grandi difficoltà, ma grazie anche all’allargamento degli aventi diritto al voto sancito dalla nuova legge elettorale del 1882[29] riuscì a essere eletto alla Camera nelle elezioni politiche del 1882, diventando il primo deputato socialista della storia d’Italia. Anche il Partito Operaio Italiano di Costantino Lazzari e Giuseppe Croce si presentò alle elezioni del 1882, ma senza successo.

Frattanto il movimento operaio si organizzava in forme più complesse come Federazioni di mestiere, Camere di lavoro e così via. Le Camere di lavoro si trasformarono in organizzazioni autonome e divennero il punto di aggregazione a livello cittadino di tutti i lavoratori.

Dalla nascita alla prima guerra mondiale[modifica | modifica wikitesto]

Fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani[modifica | modifica wikitesto]

Filippo TuratiCostantino Lazzari

Su queste basi nel 1892 nacque a Genova il Partito dei Lavoratori Italiani, che fuse in sé l’esperienza del Partito Operaio Italiano (nato nel 1882 a Milano), della Lega Socialista Milanese[30] (d’ispirazione riformista, fondata nel 1889 per iniziativa di Filippo Turati) e di molte leghe e movimenti italiani che si rifacevano al socialismo di ispirazione marxista.

La scelta di Genova come città in cui svolgere il congresso il 14 e 15 agosto del 1892 fu dovuta tra le altre cose alla contemporanea presenza delle manifestazioni colombiane per il quattrocentenario della scoperta delle Americhe: infatti le ferrovie in tale occasione avevano concesso degli sconti sui biglietti per il capoluogo ligure, che vennero sfruttati dai convenuti al congresso (la maggior parte dei quali proveniva dalle regioni del nord)[31]. La decisione generò attriti con i rappresentanti della locale Confederazione operaia genovese, inizialmente tenuti fuori dall’organizzazione dell’evento e mediaticamente si rivelò controproducente, giacché in quei giorni l’interesse dei quotidiani e delle riviste era concentrato proprio sugli eventi (gare ginniche e regate) correlati alla grande esposizione colombiana, che finirono per mettere in ombra il congresso.[31]Anna KuliscioffCamillo Prampolini

Al congresso si presentarono circa 400 delegati, rappresentanti di interessi e posizioni non sempre allineate tra di loro[32].

I fondatori ufficiali della nuova formazione politica furono Filippo Turati e Guido Albertelli. Altri promotori furono Claudio TrevesLeonida BissolatiArcangelo Ghisleri e Enrico Ferri, che provenivano dall’esperienza del positivismo.

Turati e altri (Camillo PrampoliniAnna KuliscioffRosario Garibaldi Bosco e altri ancora) furono a Genova fin dal 13 agosto e la sera di quel giorno si riunirono per discutere delle proposte da presentare al congresso nei giorni seguenti. Gli esponenti anarchici, commentando all’epoca la natura di quest’incontro preparatorio, lo descrissero come una riunione che aveva a oggetto le decisioni da prendere contro la corrente anarchica. Gli attriti tra le due anime proseguirono il giorno successivo nella sala Sivori designata come sede del congresso, con la richiesta della parte anarchica (Pellaco, Galleani e Gori) di sospendere i lavori e la posizione di Turati e Prampolini che invece chiesero ed auspicarono una netta separazione tra le due correnti del movimento.[31] Turati decise quindi di riunire i congressisti che erano d’accordo con la sua linea non più alla sala Sivori, ma nella sede dell’associazione garibaldina Carabinieri genovesi.

Il 15 agosto si tennero quindi due incontri, quello degli aderenti alla linea di Turati (circa i due terzi dei rappresentanti convenuti a Genova),[32] che dopo alcuni infruttuosi tentativi di mediazione tra le due correnti portati avanti da Andrea Costa fondarono il Partito dei Lavoratori Italiani; e quello nella sala Sivori, dove l’ala anarchica e operaista (circa 80 delegati) diede vita a un partito omonimo, la cui esistenza ebbe di fatto termine con la fine del congresso.[31][32]

Venne eletto segretario del neocostituito partito Carlo Dell’Avalle, fondatore nel 1882 della Società Genio e Lavoro, che riuniva le principali organizzazioni operaie milanesi, tra cui quelle dei ferrovieri e dei lavoratori della Pirelli.

Nel II Congresso di Reggio Emilia nel 1893 il partito si diede un’autonomia e un nome ufficiale come Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, inglobando anche il Partito Socialista Rivoluzionario Italiano di Andrea Costa. Fu confermato segretario Carlo Dell’Avalle. Lo storico avvenimento fu documentato dal fotografo Gildaldo Bassi, lui stesso militante e amico di Prampolini e Costa.

Nell’ottobre del 1894 il partito venne sciolto per decreto a causa della repressione crispina. Il 13 gennaio 1895 si tenne in clandestinità il III Congresso a Parma che decise di assumere la denominazione definitiva di Partito Socialista Italiano. Fu eletto Segretario Filippo Turati.

Turati era erede del radicalismo democratico e nel 1885 si era unito con la rivoluzionaria russa Anna Kuliscioff, in precedenza legata sentimentalmente ad Andrea Costa. Conosceva le opere di Karl Marx e Friedrich Engels ed era legato alla socialdemocrazia tedesca e alle associazioni operaie lombarde. Considerava il socialismo non dal punto di vista insurrezionale, ma come un ideale da calare nelle specifiche situazioni storiche. Alle elezioni politiche del 1895 in contrapposizione alla repressione venne creata un’alleanza democratico-socialista. Vennero eletti in Parlamento 15 deputati socialisti, tra i quali Bissolati, Costa, Prampolini e Turati.

Nascita dell’Avanti! e moti popolari del 1898[modifica | modifica wikitesto]

Primo numero dell’Avanti! del 25 dicembre 1896

Il 25 dicembre 1896[33] vede la luce il primo numero del quotidiano del partito, l’Avanti!, che svolge un’importante azione di unificazione e propaganda delle posizioni del PSI su tutto il territorio nazionale. Il giornale è diretto da Leonida Bissolati.

Nel 1898 l’aumento del costo del grano e quindi del pane da 35 a 60 centesimi al chilo a causa degli scarsi raccolti agrari e in parte all’aumento del costo dei cereali d’importazione dovuto alla guerra Iipano-americana, provoca in quasi tutta Italia innumerevoli manifestazioni popolari per il pane, il lavoro e contro le imposte, sempre represse dal governo. A gennaio nelle province di Modena e Bologna intervengono interi reparti di fanteria e la polizia arresta decine di persone.

Forlì i manifestanti subiscono le cariche della polizia e la manifestazione degenera in tumulto; mentread Ancona e a Senigallia interviene un battaglione di fanteria inviato da Pesaro. Ancona è affidata al generale Baldissera, il quale assumendo i pieni poteri militari ordina arresti di massa. Il governo di Rudinì richiama alle armi 40 000 riservisti da impiegare nella repressione delle manifestazioni. Scioperi e tumulti si contano a decine in Sicilia, in Campania e nelle Marche.Illustrazione di Gabriele Galantara intitolata «Bravo» da L’Asino del 3 luglio 1898 in cui Francesco Crispi (responsabile del massacro di Caltavuturo e dell’intervento militare contro i Fasci siciliani) si congratula con il marchese di Rudinì per la dura repressione dei moti popolari del 1898 da parte dei governi da lui presieduti

Il 3 febbraio Perugia è posta in stato d’assedio. Il 16 febbraio l’esercito interviene contro una manifestazione a Palermo e la truppa spara su disoccupati, donne e ragazzi e con un bilancio di cinque morti e ventotto feriti la città, posta in stato d’assedio, è occupata da due compagnie di fanteria. Il 22 febbraio a Modica i carabinieri fanno altri cinque morti.

In marzo Bassano è messa sotto controllo dal regio esercito mentre nel bolognese sono sciolte le cooperative e arrestati vari sindacalisti e lavoratori.

Il popolo insorge nelle città di FerraraFaenzaPesaro e Napoli. Il 25 aprile l’esercito e le forze dell’ordine occupano Bari, messa in stato d’assedio, mentre dal mare l’incrociatore Etruria punta i cannoni sulla città. Fra il 28 e il 30 aprile sono represse con durezza le manifestazioni in Campania e in Puglia. I fermenti, non più contenuti dalle normali misure di pubblica sicurezza, si allargano a macchia d’olio coinvolgendo RiminiRavenna e Benevento, finendo con l’interessare in breve tempo gran parte della penisola.

Il 2 maggio a Firenze è dichiarato lo stato d’assedio, così come a Napoli due giorni dopo.

Nei tumulti diversi rivoltosi vengono uccisi: il 1º maggio a Molfetta si contano cinque morti e il 5 maggio altri due. Da Bari accorre la fanteria mentre anche a Minervino e altrove nella Puglia si accendono qua e là focolai di protesta. La situazione è critica e il governo affida la regione al generale Pelloux.

Ai primi di maggio l’esercito apre il fuoco a Bagnacavallo e si contano sei morti. Nello stesso periodo cadono due manifestanti a Piacenza e uno a Figline Valdarno. Il 5 maggio durante una pubblica assemblea davanti al municipio i carabinieri falciano quattro manifestanti a Sesto Fiorentino.

Il 5 maggio a Pavia mentre si cominciano ad avere tafferugli tra manifestanti e agenti viene ucciso dalle forze dell’ordine Muzio Musso, figlio del sindaco di Milano, che tentava un’opera di mediazione per evitare tragedie.Piazza Duomo a Milano presidiata dalle truppe nel 1898 in una foto di Luca Comerio

Il 6 maggio a Milano la polizia arresta sindacalisti e operai, che vengono rilasciati grazie all’intervento di Filippo Turati. Nel pomeriggio in risposta al lancio di sassi da parte di un gruppo di dimostranti una compagnia di soldati apre il fuoco il bilancio è di tre morti e numerosi feriti.

La popolazione milanese reagisce compatta e viene indetto uno sciopero generale di protesta per il giorno 8 maggio. Intanto la cittadinanza si riunisce in massa, riversandosi nelle strade principali della città. Entra in azione la cavalleria, le cui cariche vengono però vanificate dalle barricate erette per strada e dalle tegole lanciate dai tetti delle abitazioni. Nel pomeriggio del 7 maggio il governo, utilizzando come scusa un possibile intento rivoluzionario delle manifestazioni, decreta per Milano lo stato d’assedio, affidando i pieni poteri al generale Fiorenzo Bava Beccaris.

L’8 maggio i cannoni aprono il fuoco contro la folla e l’esercito riceve l’ordine di sparare contro ogni assembramento di persone superiore alle tre unità. Restano uccise centinaia di persone e accanto ai morti si possono contare oltre un migliaio di feriti più o meno gravi. Il numero esatto delle vittime non è mai stato precisato in quanto secondo la polizia rimasero a terra uccisi 100 manifestanti e si contarono 500 feriti mentre per l’opposizione i morti furono invece 350 e i feriti più di mille.

Il 9 maggio quando ormai l’ordine era stato pienamente ristabilito a Milano e nel resto del Paese il generale Bava Beccaris, appoggiato dal governo, fa sciogliere associazioni e circoli ritenuti sovversivi e arrestare migliaia di persone appartenenti a organizzazioni socialiste, repubblicane e anarchiche, fra cui anche alcuni parlamentari come Filippo Turati (eletto deputato dal 1896), Anna KuliscioffAndrea CostaLeonida BissolatiCarlo Romussi (deputato radicale) e Paolo Valera.

Tutti i giornali antigovernativi vengono messi al bando e il 12 maggio a Roma è tratta in arresto l’intera redazione dell’Avanti! e sono fatte chiudere fino a nuovo ordine tutte le università.

In conseguenza di questi arresti verranno inflitte da tribunali militari oltre 800 condanne e lo stesso Turati subisce una condanna a dodici anni di reclusione.

La repressione dei moti popolari del 1898 rallenta la crescita del PSI, che decide di promuovere un’alleanza di tutti partiti dell’estrema sinistra (socialista, repubblicano e radicale).

Nell’età giolittiana[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1901 Filippo Turati in sintonia con le sue istanze minimaliste (il cosiddetto programma minimo, che si poneva come obiettivi parziali riforme che i socialisti riformisti intendevano concordare con le forze politiche moderate o realizzare direttamente se al governo) appoggiò prima il governo liberale moderato presieduto da Giuseppe Zanardelli e successivamente (1903) quello di Giovanni Giolitti, che nel 1904 approvò importanti provvedimenti di legislazione sociale, come leggi sulla tutela del lavoro delle donne e dei bambini, infortuni, invalidità e vecchiaia; comitati consultivi per il lavoro; e apertura verso le cooperative.

A causa però della politica messa in atto da Giolitti che favoriva solo gli operai meglio organizzati, dal 1902 appare nel PSI una corrente rivoluzionaria guidata da Arturo Labriola e dall’intransigente Enrico Ferri, che nel congresso di Bologna del 1904 mette in minoranza la corrente di Turati, accusata di ministerialismo. Ferri è nominato segretario del partito dal 1904 al 1906.

La corrente riformista torna a prevalere nel congresso del 1908 in alleanza agli integralisti di Oddino Morgari. egli anni seguenti Turati rappresenta la personalità principale del gruppo parlamentare del PSI, generalmente più riformista del partito stesso. In questa veste è l’interlocutore privilegiato di Giolitti, che stava allora perseguendo una politica di attenzione alle emergenti forze di sinistra.

Uscita dei sindacalisti rivoluzionari[modifica | modifica wikitesto]

Dopo lo sciopero generale del settembre 1904, il primo di questa ampiezza in Italia e in tutta Europa, la corrente di sinistra del PSI propugnava i metodi del sindacalismo rivoluzionario mentre i suoi rapporti con il resto del partito andarono peggiorando a tal punto che al congresso di Ferrara del 1907 fu decisa la sua uscita dal partito e l’incremento dell’azione autonoma sindacale.

Nel 1906 Ferri, a capo della corrente integralista e in accordo con i riformisti di Turati, riuscì a conservare la direzione del partito nonostante la rottura con Labriola, tenendo anche la direzione dell’Avanti! e concorrendo alla nomina a segretario del partito di Oddino Morgari che tenne la segreteria fino al 1908, quando dovette cederla al turatiano e riformista Pompeo Ciotti.

Dal 21 al 25 ottobre 1910 si tenne a Milano l’XI Congresso del PSI, che mise in luce crescenti insoddisfazioni e nuove divisioni. Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi criticarono Turati da destra mentre Giuseppe Emanuele Modigliani e Gaetano Salvemini lo criticarono da sinistra.

All’estrema sinistra si schierò invece un giovane rappresentante della federazione di ForlìBenito Mussolini, che partecipava per la prima volta a un congresso nazionale del partito.

Espulsione di Bissolati, Bonomi, Podrecca e Cabrini e nascita del PSRI[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Massimalismo (politica) e Partito Socialista Riformista Italiano.

Leonida BissolatiIvanoe BonomiGuido Podrecca

Il XIII congresso, convocato in forma straordinaria dal 7 al 10 luglio 1912 a Reggio Emilia, inasprì le divisioni che attraversano il partito riguardo alla guerra in Libia.

Trionfò la corrente massimalista e si sancì l’espulsione degli esponenti di una delle aree riformiste, capeggiata da Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati[34] e composta da Angiolo CabriniGuido Podrecca[35] e altri nove deputati socialisti.

Bissolati nel 1911 si era recato al Quirinale per le consultazioni susseguenti la crisi del Governo Luzzatti, causando il malcontento del resto del partito, compreso quello di Filippo Turati, esponente di spicco dell’altra corrente riformista.[36]Benito Mussolini direttore dell’Avanti!

L’esponente socialista che al congresso si scagliò ferocemente contro i riformisti, poi espulsi, aizzando la folla contro di loro, fu Benito Mussolini della corrente massimalista, che avanzò una mozione di espulsione (definita da lui anche lista di proscrizione). L’accusa era di «gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista».[37] In virtù di quell’arringa si guadagnò una notevole fama all’interno del PSI che lo portò a entrare nella direzione nazionale del partito e da lì a poco nell’ottobre 1912 gli consentì di diventare direttore dell’Avanti!.

La corrente massimalista elesse il segretario Costantino Lazzari ed esautorò dalla direzione dell’Avanti! il riformista Claudio Treves, sostituendolo con Giovanni Bacci, che guidò il giornale per quattro mesi (dal luglio all’ottobre 1912), venendo poi sostituito a sua volta da Mussolini.

Bissolati e i suoi, cacciati dal partito, diedero vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI).

XIV Congresso ad Ancona[modifica | modifica wikitesto]

Il XIV Congresso del partito si tenne ad Ancona dal 26 al 28 aprile 1914. Esso sancì l’incontestabile vittoria dell’ala massimalista e la definitiva sconfitta dei riformisti, presenti soprattutto nel gruppo parlamentare e nella Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), già messi in minoranza nel precedente Congresso di Reggio Emilia del 1912. Già la scelta della sede del Congresso era stata fatta per mettere i massimalisti in posizione di vantaggio: Ancona era considerata all’epoca la città più rivoluzionaria d’Italia, tanto che il Sindacato dei Ferrovieri d’ispirazione massimalista (contrapposto a quello aderente alla CGdL, considerato troppo riformista e contaminato dalla presenza di lavoratori non socialisti) vi aveva trasferito la propria sede nazionale. La presenza in città di figure importanti, come Errico Malatesta fra gli anarchici e Pietro Nenni,[38] allora segretario della Consociazione repubblicana delle Marche e direttore del periodico repubblicano di Ancona, il Lucifero,[39] dava vita a un dibattito politico molto duro e infuocato con forti tensioni sociali. Il Congresso socialista fu improntato all’esaltazione dell’intransigenza rivoluzionaria e al dileggio dei riformisti, considerati quasi dei traditori della classe operaia. Infatti si consideravano ormai maturi i tempi per l’abbattimento del potere borghese, per cui ci si richiamava continuamente alla purezza ideologica, rifiutando ogni compromesso e ogni gradualismo, nonostante che negli anni precedenti fossero stati conseguiti importanti miglioramenti della condizione di vita e di lavoro del popolo grazie all’azione riformista di Filippo Turati e degli altri parlamentari socialisti (tra cui l’anconetano Alessandro Bocconi) e alle aperture alle forze popolari del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti.

Invece di proseguire queste positive esperienze riformiste, il Congresso di Ancona del 1914 in nome dell’intransigenza bocciò l’ipotesi di alleanze con le altre forze popolari, come i repubblicani e i popolari, per le elezioni amministrative del giugno 1914 e sancì l’incompatibilità tra l’iscrizione al partito e l’appartenenza alla massoneria, il che porta a un grave indebolimento del PSI, con l’espulsione di molti quadri e dirigenti storici del partito, appartenenti per lo più all’ala riformista.

Nella polemica per l’intransigenza ideologica e contro la massoneria si distinse il battagliero direttore dell’Avanti! Benito Mussolini, insediato l’anno prima alla direzione del quotidiano socialista dopo l’estromissione del riformista Claudio Treves. Gli tenne testa un giovane delegato del PolesineGiacomo Matteotti, quasi anticipando quella contrapposizione che dieci anni dopo avrebbe condotto all’assassinio di Matteotti con l’avallo del capo politico del fascismo. Il congresso approvò con quasi i tre quarti dei voti l’ordine del giorno Zibordi-Mussolini che sancì l’immediata incompatibilità tra socialismo e massoneria.[40]

Il Congresso avallò a grande maggioranza le scelte massimaliste, riconfermando segretario Costantino Lazzari. Mussolini colse un grande successo personale con una mozione di plauso per i ottimi risultati di diffusione e di vendite dell’Avanti!, tributatagli personalmente dai congressisti.[41] Infatti nel breve periodo di direzione Mussolini l’Avanti! era salito da 30 000–45 000 copie nel 1913 a 60 000–75 000 copie nei primi mesi del 1914.[42]

Fu probabilmente in quest’occasione che Mussolini cominciò a rendersi conto che la sua oratoria roboante, le sue uscite iperboliche e le sue argomentazioni populistiche potevano portarlo lontano e alla guida di masse che lo applaudivano freneticamente, ma che egli in realtà disprezzava.

Prima guerra mondiale e crisi del neutralismo[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Prima guerra mondiale § L’Italia entra in guerra.

Il 28 luglio 1914 scoppiò la prima guerra mondiale con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo. Il PSI sviluppò un forte impegno per la neutralità dell’Italia, sposando la linea non interventista dell’Internazionale Socialista. Il 26 luglio 1914 Mussolini pubblicò sull’Avanti un editoriale intitolato «Abbasso la guerra» a favore della scelta antibellicista, dichiarando che il conflitto non potesse giovare agli interessi dei proletari italiani, bensì solo a quelli dei capitalisti. Il 27 luglio propose uno sciopero generale insurrezionale nel caso dell’entrata italiana nel conflitto.[43] Nello stesso periodo all’insaputa dell’opinione pubblica il Ministero degli Esteri, guidato da Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, stava avviando un’operazione di persuasione negli ambienti socialisti e cattolici per ottenere un atteggiamento favorevole verso un possibile intervento dell’Italia in guerra.[44]

Tra i primi esponenti di area socialista a porre dubbi sulla neutralità assoluta vi furono Leonida Bissolati e Gaetano Salvemini, cui seguirono i socialisti riformisti e i sindacalisti rivoluzionari.[45] Già nei primi mesi del conflitto appariva quindi tutta l’incertezza del PSI, che non sapeva risolversi tra la sua inclinazione antimilitarista e la propensione verso la guerra come mezzo per rinnovare la lotta politica e smuovere gli equilibri consolidati nel Paese.[46]

Si pensi inoltre alla posizione accesamente interventista del dirigente socialista trentino e quindi cittadino austro-ungarico Cesare Battisti, poi arruolatosi volontario nell’Esercito Italiano, catturato dagli austriaci, condannato a morte per alto tradimento e impiccato al Castello del Buonconsiglio di Trento.

Mussolini cominciò a mostrare un atteggiamento più aperto verso la possibilità di un intervento italiano nella grande guerra, che gli valse un primo attacco il 28 agosto 1914 in un articolo de Il Giornale d’Italia, attacchi che continuarono in settembre e ottobre su altri quotidiani. Fu in questo contesto che Filippo Naldi, faccendiere con numerosi agganci tra gli ambienti finanziari e il giornalismo, nonché direttore del quotidiano bolognese Il Resto del Carlino, pubblicò sul suo giornale il 7 ottobre 1914 un polemico articolo (scritto da Libero Tancredi) in cui accusava Mussolini di doppiogiochismo, ottenendo l’irata reazione di Mussolini.[47]

A seguito di questa polemica Naldi avviò contatti diretti con Mussolini per portarlo sul fronte interventista. Così il 18 ottobre, mutando esplicitamente la propria originaria posizione, Mussolini pubblicò sulla terza pagina dell’Avanti! un lungo articolo intitolato «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante» in cui rivolse un appello ai socialisti sul pericolo che una neutralità avrebbe comportato per il partito, cioè la condanna all’isolamento politico. Secondo Mussolini le organizzazioni socialiste avrebbero dovuto appoggiare la guerra fra le nazioni, con la conseguente distribuzione delle armi al popolo, per poi trasformarla in una rivoluzione armata contro il potere borghese.

La nuova linea proposta da Mussolini non venne accettata dal partito e nel giro di due giorni (20 ottobre) rassegnò le dimissioni dalla direzione del giornale socialista). Grazie all’aiuto finanziario di alcuni gruppi industriali (ancora con la mediazione di Filippo Naldi),[48] Mussolini riuscì rapidamente a fondare Il Popolo d’Italia, il cui primo numero uscì il 15 novembre 1914.[49] Dalle colonne del suo nuovo giornale Mussolini intraprese una veemente campagna interventista nel corso della quale attaccò senza remore i suoi vecchi compagni.

I tempi dell’operazione e la provenienza dei finanziamenti per il nuovo quotidiano insospettirono i socialisti, che accusarono Mussolini di indegnità morale. Secondo il PSI egli avrebbe ricevuto fondi occulti da agenti francesi in Italia, che lo avrebbero corrotto per farlo aderire alla causa dell’interventismo pro-Intesa.[50] Il 29 novembre Mussolini venne espulso dal PSI.

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia i socialisti italiani trovarono un punto di mediazione al loro interno nella formula «né aderire né sabotare» elaborata dal segretario nazionale dell’epoca Costantino Lazzari.

Dal primo dopoguerra all’esilio all’estero e alla clandestinità in Italia[modifica | modifica wikitesto]

Nell’immediato dopoguerra, cavalcando lo scontento per la «vittoria mutilata», Mussolini fondò i Fasci italiani di combattimento (23 marzo 1919), movimento di dichiarata ispirazione almeno inizialmente socialrivoluzionaria e nazionalista, che si sarebbe poi trasformato nel 1921 nel Partito Nazionale Fascista.

Scissione comunista e espulsione dei riformisti[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: XVII Congresso del Partito Socialista Italiano e Partito Comunista d’Italia.

A partire dal primo dopoguerra le diverse anime del movimento socialista si separarono a seguito della rivoluzione russa e della nascita dello Stato sovietico, dando vita a tre differenti partiti.Il XVII Congresso nazionale del PSI nel 1921 a Livorno

Nel 1921 si tenne a Livorno il XVII congresso del partito. Dopo giorni di dibattito serrato i massimalisti unitari di Giacinto Menotti Serrati raccolsero 89 028 voti, i comunisti puri di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci 58 783 e i riformisti concentrazionisti di Filippo Turati 14 695.[51]

I comunisti di Bordiga uscirono dal congresso e fondarono il Partito Comunista d’Italia (PCD’I), al fine di adeguarsi ai «21 punti» dell’Internazionale ComunistaLenin aveva invitato il PSI a conformarsi ai suoi dettami e a espellere la corrente riformista di Turati, Claudio Treves e Camillo Prampolini, ricevendo tuttavia il diniego da parte di Menotti Serrati, che non intendeva rompere con alcune delle voci più autorevoli, seppur minoritarie, del partito.

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: XIX Congresso del Partito Socialista Italiano e Partito Socialista Unitario.

Giacomo Matteotti. Insieme a Filippo Turati e a Claudio Treves diede vita al Partito Socialista Unitario

Nell’estate del 1922 Turati, in contrasto con la disciplina del partito, si recò dal re Vittorio Emanuele III per le rituali consultazioni in occasione della crisi di governo, nella quale non fu possibile raggiungere un accordo fra i socialisti e Giolitti, per cui il re diede l’incarico di presidente del Consiglio a Luigi Facta.

Per aver violato il divieto di collaborazione con i partiti borghesi, nel corso del XIX congresso del 3 ottobre 1922 la corrente riformista venne espulsa dalla maggioranza massimalista, pochi giorni prima della marcia su Roma di Mussolini.

Turati e i suoi diedero quindi vita al Partito Socialista Unitario (PSU), di cui fu nominato segretario il deputato del Polesine Giacomo Matteotti.

Assassinio di Matteotti, trasformazione del fascismo in regime, esilio a Parigi e clandestinità in Italia[modifica | modifica wikitesto]

Il 10 giugno 1924 il deputato e segretario del PSU Giacomo Matteotti, dieci giorni dopo il suo discorso di denuncia delle violenze e dei brogli perpetrati dai fascisti nelle elezioni appena celebrate pronunciato il 30 maggio alla Camera dei deputati,[52][53] venne rapito e ucciso da una squadraccia fascista, la cosiddetta CEKA di Amerigo Dumini, che rispondeva agli ordini della direzione del Partito Nazionale Fascista ed era finanziata direttamente dall’ufficio stampa del presidente del Consiglio Benito Mussolini.

Tra il 1925 e il 1926 il fascismo, con l’appoggio della monarchia, provvide alla soppressione in Italia di tutti i partiti di opposizione, compreso il PSI (R.D. n. 1848/26), costringendo all’esilio i socialisti non rinchiusi in carcere o assegnati al confino.

Militanza politica in esilio[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Partito Socialista Italiano (1930-1940).

Dopo la messa al bando del partito da parte del regime fascista i membri della direzione del PSI furono costretti a espatriare per evitare il carcere o il confino e si rifugiarono in Francia, come la gran parte degli antifascisti italiani in esilio.

In questo periodo il PSI guidato da Ugo Coccia si adoperò per la conclusione di alleanze tra i partiti italiani antifascisti in esilio. Già il 6 dicembre 1926 si costituì a Parigi un primo Comitato d’attività antifascista, composto dai rappresentanti del Partito Repubblicano Italiano, del PSU di Turati e Treves e del PSI, allo scopo di accertare se esistessero le condizioni per trasformare in alleanza stabile la collaborazione tra le forze antifasciste.[5] Il comitato approvò la proposta di costituire una «concentrazione d’azione», formata da un cartello di partiti autonomi e di diversa estrazione ideologica e politica, ma che condividevano un’identica base programmatica di opposizione al fascismo.[5] Il 28 marzo successivo si costituì la Concentrazione d’azione antifascista, anche con la Lega italiana dei diritti dell’uomo e l’ufficio estero della Confederazione Generale Italiana del Lavoro del socialista Bruno Buozzi. Nel maggio del 1928 il Comitato centrale della concentrazione indicò nell’instaurazione in Italia della repubblica democratica dei lavoratori, l’obiettivo finale della battaglia antifascista.[54]

Sul finire degli anni 1920 si erano consolidate all’interno del PSI in esilio due posizioni politiche distinte. La prima, guidata da Pietro Nenni e considerata all’ala destra del partito, auspicava la riunificazione con i riformisti del PSULI e un ingresso congiunto nell’Internazionale Operaia Socialista (IOS).

La seconda posizione di ultra-sinistra era propugnata dalla rivoluzionaria e oratrice poliglotta russa[55] Angelica Balabanoff, già segretaria politica del PSI dal 15 gennaio 1928 e direttrice dell’Avanti!, erede della componente massimalista un tempo maggioritaria nel partito dopo la scissione dei comunisti nel 1921 e l’espulsione dei riformisti nel 1922 e prima dello scioglimento ope legis del PSI nel 1926. Essa difendeva strenuamente la linea e i metodi rivoluzionari, ma in autonomia e financo in polemica con Mosca e al tempo stesso rifiutava qualunque collaborazione con i riformisti (i «socialsciovinisti», nella terminologia d’allora), prospettando a livello internazionale l’affiliazione del PSI al Bureau di Londra.

Nei preliminari del Convegno socialista di Grenoble, tenutosi il 16 marzo 1930, Pietro Nenni e la sua frazione fusionista uscirono dal PSI ufficiale e successivamente in occasione del XXI congresso, tenutosi in esilio a Parigi nella Casa dei Socialisti francesi dal 19 al 20 luglio 1930, passato alla storia come il Congresso dell’Unità, si fusero con il Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani di Turati, Treves e Giuseppe Saragat dando vita al Partito Socialista Italiano – Sezione dell’IOS.

La frazione della Balabanoff, conosciuta oggi col nome di Partito Socialista Italiano (massimalista), continuò l’attività politica pubblicando l’Avanti! (che restò ai massimalisti)[56] fin oltre il 1940,[57] sciogliendosi al finire della seconda guerra mondiale con l’adesione dei suoi esponenti al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSUP), tra cui la Balabanoff, o al ricostituito PCd’I come Partito Comunista Italiano (PCI).

Nel XXII congresso, svoltosi in esilio a Marsiglia nell’aprile del 1933, Nenni fu eletto per la prima volta segretario politico, sostituendo il suo predecessore Ugo Coccia, morto il 23 dicembre 1932. Anche direttore dell’Avanti!, Nenni ricoprì la carica di segretario per quattordici anni sino all’aprile del 1945.

Inizialmente il programma concentrazionista di Nenni dette vita anche a un accordo con il movimento Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli che sancì l’ingresso dello stesso nella Concentrazione Antifascista (ottobre 1931). Il successivo orientamento di Nenni in direzione di un patto d’unità d’azione con il PCd’I condusse nel maggio 1934 allo scioglimento definitivo della Concentrazione Antifascista.[58] Il documento del patto d’unità d’azione con il PCI, sottoscritto da Nenni nell’agosto 1934 non ignorava le divergenze ideologiche e tattiche delle due formazioni politiche, ma ne ribadiva la piena autonomia.

Nell’ottobre 1935 Nenni promosse insieme al PCI la convocazione di un congresso degli Italiani all’estero contro la guerra d’Abissinia.

Partecipazione alla guerra civile spagnola[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Guerra civile spagnola e Brigate internazionali.

Il 27 ottobre 1936 durante la guerra civile spagnola repubblicani, socialisti e comunisti italiani firmarono a Parigi l’atto costitutivo del Battaglione Garibaldi, del quale venne designato a comandante Randolfo Pacciardi. La formazione venne inquadrata nelle Brigate internazionali.

Anche Nenni combatté al fianco di democratici provenienti da tutto il mondo e venne nominato commissario politico di divisione e delegato dell’IOS.[59]

Dopo la caduta di Barcellona, avvenuta il 26 gennaio del 1939, i sopravvissuti antifascisti italiani rientrarono in Francia.

Pochi mesi dopo scoppiò la seconda guerra mondiale, con l’entrata in guerra dell’Italia e l’occupazione tedesca della Francia (giugno 1940).

Con l’aggressione nazista all’Unione Sovietica e la conseguente rottura del Patto Molotov-Ribbentrop, nell’ottobre 1941 venne firmato a Tolosa un nuovo patto di unità d’azione tra socialisti e comunisti italiani, con l’adesione anche di Giustizia e Libertà.

Arrestato dalla Gestapo a Saint-Flour nel sud della Francia l’8 febbraio 1943, Nenni fu poi trasferito a Parigi nel carcere di Fresnes, dove rimase rinchiuso per circa un mese. Il 5 aprile venne consegnato alla polizia fascista italiana alla frontiera del Brennero, probabilmente su richiesta di Mussolini, che così lo salvò dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti.

Rinascita tra la Resistenza e la Repubblica[modifica | modifica wikitesto]

Ricostituzione clandestina nel territorio dell’Italia centrale e meridionale[modifica | modifica wikitesto]

Il documento falso usato da Olindo Vernocchi durante la Resistenza

Il 22 luglio 1942 nello studio di Olindo Vernocchi a Roma si tenne la riunione nella quale si decise la ricostituzione clandestina del PSI clandestino sul territorio dell’Italia centrale e meridionale. Vi parteciparono Oreste LizzadriGiuseppe RomitaNicola Perrotti ed Emilio Canevari.[60] Il partito cominciò a consolidarsi e il cosiddetto «gruppo dei cinque» riallacciò i contatti con i vecchi militanti, viaggiando per tutta l’Italia centrale e meridionale e promuovendo azioni antifasciste direttamente nella città di Roma, oltre alla diffusione di volantini e stampa clandestina e sostegno agli scioperi (particolarmente importante quello del 1º maggio 1943 di cui furono protagonisti gli studenti universitari).[61][62]

Il 26 luglio 1943, il giorno seguente l’arresto di Mussolini sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo con l’ordine del giorno Grandi, Vernocchi e Romita andarono in rappresentanza del PSI in seno al Comitato delle Opposizioni dal re Vittorio Emanuele III a chiedere lo scioglimento del Partito Nazionale Fascista.[60] Vernocchi si adoperò in particolar modo affinché nel detto Comitato fossero inclusi anche i comunisti, vincendo le resistenze di Alcide De Gasperi.[63]

L’11 settembre 1943 venne pubblicato il primo e unico numero del giornale il Lavoro d’Italia, che sostituiva il precedente Lavoro Fascista, nel quale si esortavano i lavoratori italiani alla resistenza contro i nazisti. Diretto congiuntamente da Vernocchi, dal democristiano Alberto Canaletti Gaudenti e dal comunista Mario Alicata, era espressione del comitato sindacale interconfederale, segno della volontà dei maggiori partiti antifascisti di concentrare le forze sindacali in un unico soggetto[64].

Nascita del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria – PSIUP[modifica | modifica wikitesto]

Falso documento di identità intestato a Nicola Durano di Siracusa utilizzato da Sandro Pertini durante la clandestinità

Il 22–25 agosto 1943, nel corso dell’incontro tenutosi in casa di Oreste Lizzadri, in viale Parioli 44 a Roma, i militanti del PSI clandestino dell’Alta Italia, il PSI clandestino del Centro-Sud Italia e gli esponenti del PSI rientrati dall’esilio in Francia si fusero con il Movimento di Unità Proletaria di Lelio Basso. Nacque così il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP),[65][66] che raggruppava una parte consistente di personalità influenti della sinistra italiana antifascista, come i futuri presidenti della Repubblica Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, il giurista Giuliano Vassalli, lo scrittore Ignazio Silone, l’avvocato Lelio Basso e il futuro Ministro dell’Interno Giuseppe Romita. A diventare segretario del partito fu Pietro Nenni.

Il PSIUP durante la Resistenza partecipò attivamente al Comitato di Liberazione Nazionale e si avvicinò in particolare al PCI, con una politica di unità d’azione volta a modificare le istituzioni in senso socialista.

Il 4 agosto 1944, dopo la liberazione della capitale, Romita e Olindo Vernocchi firmarono assieme ai comunisti Giorgio Amendola e Giovanni Roveda il patto d’azione tra PSI e PCI.[67]

Si arrivò anche a ipotizzare una possibile fusione tra i due partiti che potesse ricomporre la storica frattura della scissione di Livorno. Questa politica, osteggiata dalla destra del partito guidata da Saragat, era in buona parte legata alla preoccupazione che divisioni interne alla classe operaia potessero favorire l’ascesa di movimenti di destra autoritaria come era avvenuto nel primo dopoguerra con il fascismo.

XXIV Congresso a Firenze del PSI e I Congresso del PSIUP[modifica | modifica wikitesto]

Al XXIV congresso, il primo nel dopoguerra, che si svolse al teatro comunale di Firenze tra l’11 e il 17 aprile del 1946, il partito si trovò unito sotto la guida di Pietro Nenni a rivendicare la paternità e l’attualità della Costituente, alla quale i socialisti, più dei comunisti, avevano lavorato con coerenza e senza ripiegamenti. Tuttavia sui caratteri fondamentali del partito, in particolare sul rapporto col PCI, il PSIUP si trovò diviso in tre. L’obiettivo della fusione con il PCI era stato ufficialmente abbandonato anche dalla maggioranza che faceva capo a Lelio Basso e Rodolfo Morandi con la copertura di Nenni. A questa prospettiva restavano legati ormai solo Oreste Lizzadri e Francesco Cacciatore, che furono poi indotti a ritirare il loro documento e a convergere sulla mozione Morandi-Basso.

Sandro Pertini si era spostato su posizioni mediane, difendendo l’autonomia e l’indipendenza del partito dai comunisti e firmando una mozione assieme a Ignazio Silone. Su questa mozione ripiegarono anche i giovani raccolti attorno alla rivista Iniziativa socialista, che contestavano i governi ciellenisti e sognavano una rivoluzione libertaria e non leninista. Saranno il perno su cui Saragat agirà poi nel 1947 per far scattare la molla della scissione.

Su posizioni ancora più intransigentemente autonomiste stavano i socialisti raccolti nella mozione di Critica sociale, appunto Saragat, Giuseppe FaravelliGiuseppe Emanuele ModiglianiLudovico D’Aragona e Alberto Simonini.

Il congresso segnò una svolta. Il confronto, anzi lo scontro, non era più sul tema dell’attualità o meno della fusione, ma sul modello di socialismo. Nel suo intervento Saragat richiamò il fatto che «lo sviluppo di un socialismo autocratico e autoritario [era] uno dei problemi attuali» e gli contrapponeva il suo socialismo democratico. Basso parlò di un profondo dissenso «tra lo spirito classista e lo spirito liberalsocialista». Alla fine il congresso diede un esito clamoroso. Le mozioni di Pertini, Silone e di Critica sociale raggiunsero il 51 per cento mentre quella cosiddetta di Base, cioè di Basso e Morandi, solo il 49. La direzione venne composta per metà da membri della mozione di Base e per metà da esponenti delle altre due. Nenni da segretario si trasferì alla presidenza e segretario del partito venne eletto Ivan Matteo Lombardo, un esponente relativamente conosciuto, invece di Pertini, come ci si attendeva.

Campagna elettorale per l’Assemblea Costituente e referendum monarchia o repubblica[modifica | modifica wikitesto]

In occasione del referendum istituzionale del 2 giugno del 1946 il PSIUP fu uno dei partiti più impegnati sul fronte repubblicano, al punto da venire identificato come «il partito della Repubblica». Famoso rimase lo slogan di Nenni «O la Repubblica, o il caos!»

Dall’Assemblea Costituente al centro-sinistra[modifica | modifica wikitesto]

Scissione socialdemocratica di palazzo Barberini[modifica | modifica wikitesto]

Il XXV congresso socialista, convocato in via straordinaria a Roma nella Città Universitaria dal 9 al 13 gennaio 1947, fu voluto fortemente da Nenni per analizzare la situazione di attrito tra le componenti di maggioranza e minoranza con l’obiettivo di riunire le diverse posizioni, ma fallì questo scopo primario.Giuseppe Saragat

La componente riformista del PSIUP guidata da Saragat rimproverava agli altri esponenti socialisti di essere pressoché schiacciati sulle posizioni del PCI e di mantenere dei forti legami con l’Unione Sovietica, a differenza della collocazione assai più autonoma degli altri partiti socialisti europei. Saragat volle parlare alla Città universitaria e svolse una dura requisitoria contro Nenni e poi con un gruppo di delegati se ne andò raggiungendo gli altri delegati democratico-riformisti già riuniti a Palazzo Barberini dove propose ai presenti la costituzione di un nuovo partito socialista autonomo dai comunisti.Giuseppe Saragat con Sandro Pertini nel 1979

Sandro Pertini si sforzò di mediare fra i due gruppi, per tentare di mantenere unito il partito, anche in vista delle probabili decisive elezioni politiche dell’anno successivo. «Pertini non si rassegnò e decise di gettarsi a capofitto, com’era nella sua indole, nella baraonda congressuale recandosi personalmente a Palazzo Barberini per un disperato estremo tentativo. Quando arrivò venne accolto da un grido di vittoria, «Sandro, Sandro», coi delegati scissionisti tutti in piedi, convinti che anche Pertini si fosse unito a loro. Ma quando egli volle manifestare il suo proposito unitario, Saragat gli rispose ringraziandolo, ma dichiarando che ormai la scissione era stata consumata. Simonini, invece, aveva parlato alla Città universitaria invitando i seguaci di Nenni e Basso a non rompere i ponti, a «non spezzare le possibilità, se ve ne sono ancora, e lo dico io», proseguì, «che ho l’onestà di dirvi che spiritualmente sono alla sala Borromini anche se fisicamente sono qui».[68]

Tutti i tentativi di mediazione fallirono. Come disse Nenni in maniera rassegnata, la scissione fu causata dalla «forza delle cose».

L’11 gennaio 1947 l’ala guidata da Giuseppe Saragat, uscì dal PSIUP e diede vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), in seguito Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI), riprendendo il nome deciso dal II Congresso socialista di Reggio Emilia nel 1893 e poi adottato da Turati, Treves e dallo stesso Saragat negli anni dell’esilio a Parigi.

Il 10 gennaio su proposta di Olindo Vernocchi il PSIUP tornò a chiamarsi PSI nel timore che gli scissionisti potessero appropriarsi della denominazione storica del Partito.

La scissione costò al PSIUP la trasmigrazione nel nuovo partito di 50 parlamentari, quasi la metà dei rappresentanti socialisti alla Costituente, detti per questo autonomisti, oltre che di una folta schiera di dirigenti e intellettuali, fra cui Paolo TrevesLudovico D’AragonaGiuseppe Emanuele Modigliani e Angelica Balabanoff.[69]

Fronte Democratico Popolare con il Partito Comunista Italiano[modifica | modifica wikitesto]

In ottobre la scissione socialdemocratica fu parzialmente compensata dall’ingresso nel PSI dell’ala socialista degli ex-azionisti (tra cui Emilio LussuRiccardo LombardiNorberto Bobbio e Francesco De Martino) a seguito dello scioglimento di quel partito.

Al XXVI Congresso di Roma del 19–22 gennaio 1948 Nenni propose ai socialisti la presentazione di liste unitarie con il PCI per le elezioni politiche dell’aprile 1948. Tale proposta incontrò l’opposizione di Pertini, che pur essendo fautore dell’unità del movimento dei lavoratori e dell’unità d’azione con i comunisti era anche un fervido sostenitore dell’autonomia socialista nei confronti del PCI. La sua mozione fu tuttavia minoritaria e al prevalere della linea di Nenni si adeguò alla decisione della maggioranza.

La lista comune del PSI e del PCI, denominata Fronte Democratico Popolare, contrassegnata dal simbolo dell’effigie di Giuseppe Garibaldi, perse nettamente le elezioni politiche del 1948 e per quanto riguarda i socialisti essi elessero un numero molto ridotto di deputati e senatori rispetto alla rappresentanza del 1946, essendo i candidati socialisti penalizzati nelle preferenze rispetto agli esponenti del PCI, sorretti dalla capillare e strutturata macchina organizzativa del loro partito.

L’anno successivo parte della corrente autonomista del PSI, capeggiata da Giuseppe Romita, uscì dal partito per unirsi nel dicembre 1949 a una parte dei socialisti democratici a loro volta usciti dal PSLI perché in polemica con il suo eccessivo centrismo, dando vita a un nuovo partito che prenderà il nome di Partito Socialista Unitario.

Nel maggio 1951 il PSLI e il PSU si riunificheranno nel Partito Socialista – Sezione Italiana dell’Internazionale Socialista (PS-SIIS), che nel gennaio 1952 assume la denominazione di Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI).

Dopo la sconfitta elettorale del 1948 la lista del Fronte Democratico Popolare non venne più riproposta, ma il PSI rimase fedele alleato del PCI per ancora molti anni, accomunati dall’opposizione ai governi centristi egemonizzati dalla Democrazia Cristiana.

Insieme condussero nel 1949 la battaglia contro l’ingresso dell’Italia nella NATO. L’allora presidente del gruppo parlamentare socialista al Senato, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, dichiarò il voto contrario del PSI all’adesione al Patto Atlantico perché inteso come uno strumento di guerra e in funzione antisovietica nell’intento di dividere l’Europa e di scavare un solco sempre più profondo per separare il continente europeo, sottolineando come il Patto Atlantico avrebbe influenzato la politica interna italiana con conseguenze negative per la classe operaia. In quella seduta difese anche la pregiudiziale pacifista del gruppo socialista, esprimendo solidarietà nei confronti dei compagni comunisti, a suo dire veri obiettivi del Patto Atlantico, concludendo con le seguenti parole:

«Oggi noi abbiamo sentito gridare “Viva l’Italia” quando voi avete posto il problema dell’indipendenza della Patria. Ma non so quanti di coloro che oggi hanno alzato questo grido, sarebbero pronti domani veramente ad impugnare le armi per difendere la Patria. Molti di costoro non le hanno sapute impugnare contro i nazisti. Le hanno impugnate invece contadini e operai, i quali si sono fatti ammazzare per l’indipendenza della Patria![70]»

PCI e PSI, seguendo le indicazioni che giungevano dal Cominform, agirono costantemente per contrastare il ruolo egemonico degli Stati Uniti d’America nel mondo occidentale, sostenendo la lotta dei paesi dell’Africa e dell’Asia contro le potenze coloniali.

Una grande battaglia parlamentare e di piazza venne ingaggiata dai due partiti contro la nuova legge elettorale maggioritaria del 1953, la cosiddetta legge truffa. Sandro Pertini pronunciò un duro intervento in Senato contro l’approvazione del provvedimento nella seduta del 10 marzo.[71]

Primi governi di centro-sinistra e centro-sinistra organico[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Centro-sinistra in Italia e Centro-sinistra organico.

Preannunciata da Pietro Nenni al XXXI congresso di Torino del 1955,[72] la svolta nella storia del PSI si concretizza nel XXXII Congresso di Venezia del 1957 quando anche a seguito della diversa valutazione dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956, che aveva portato ad una rottura col PCI, i socialisti cominciano a guardare favorevolmente a una collaborazione con la Democrazia Cristiana (DC). Si rafforza il nesso socialismo uguale democrazia e il PSI abbandona i legami con il blocco sovietico.

Il PSI condurrà comunque una forte battaglia al fianco del PCI contro il Governo Tambroni appoggiato dai neo-fascisti del Movimento Sociale Italiano.

Nel 1963 il PSI entra direttamente nel governo, con il primo esecutivo guidato da Aldo Moro, dopo aver già iniziato l’avvicinamento all’area di governo con l’astensione nei confronti dei precedenti governi Fanfani IIIFanfani IV e Leone I.

Scissione della sinistra socialista[modifica | modifica wikitesto]

L’entrata al governo però causò una nuova spaccatura. La corrente di sinistra capeggiata da Lelio BassoDario ValoriTullio Vecchietti e Vincenzo Gatto nel gennaio del 1964 uscì dal partito e diede vita a una nuova formazione politica che riprese il nome del PSI nel periodo 19431947 di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP).

Breve esperienza del PSI-PSDI Unificati[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Partito Socialista Unificato.

Il 30 ottobre 1966 il PSI e il PSDI, dopo alcuni anni di comune presenza all’interno dei governi di centro-sinistra, decisero di riunificarsi nel Partito Socialista Unificato (PSU). Nelle successive elezioni politiche del 1968 il PSU conseguì il 14,48% dei voti alla Camera e il 15,22% al Senato, un pessimo risultato elettorale in quanto il nuovo partito perse il 5,46% dei voti alla Camera e il 5,14% al Senato rispetto alla somma dei voti ottenuti dai due partiti divisi nelle precedenti elezioni politiche del 1963 (Camera 19,94 = 13,84% PSI + 6,10 PSDI; Senato 20,36 = 14,01% PSI + 6,35 PSDI) perdendo complessivamente 29 deputati e 12 senatori, a tutto vantaggio della DC e del PRI da un lato e del PCI dall’altro, i quali videro aumentare i propri consensi.

Di conseguenza l’unità socialista entrò in crisi e il 28 ottobre 1968 il PSU riprese la denominazione di Partito Socialista Italiano mentre la componente socialdemocratica nel luglio 1969 prese il nome di Partito Socialista Unitario, che nel febbraio 1971 ridiventò Partito Socialista Democratico Italiano. I due partiti tornarono a concorrere con proprie liste autonome in occasione delle elezioni politiche del 1972, nelle quali il PSI conseguì il 9.61% dei voti alla Camera e il 10,71% al Senato mentre il PSDI il 5.14% dei voti alla Camera e il 5,36% al Senato.

Crisi definitiva del centro-sinistra[modifica | modifica wikitesto]

Le divergenze tra socialisti e democristiani, che avevano fatto concludere anticipatamente la legislatura precedente, si mantennero anche dopo il voto, tanto che Giulio Andreotti formò un governo composto da DC, PSDI e PLI (quest’ultimo per la prima volta al governo dal 1957), con l’appoggio esterno del PRI e senza il sostegno del PSI.[73] Il governo, che rappresentava un debole tentativo di ritorno al centrismo, cadde dopo un anno e Andreotti fu sostituito da Mariano Rumor, che ripropose la formula del centrosinistra. Dopo solo un anno tornarono a presentarsi dissensi nella coalizione di governo che decretarono la caduta di Rumor e il ritorno di Aldo Moro a guida di un governo centrista, ma sostenuto anche da socialisti e socialdemocratici.[73]

Referendum sul divorzio del 1974[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Referendum sul divorzio.

La campagna referendaria sul divorzio contribuì a dividere ulteriormente il fronte dei partiti laici (capitanato da radicali e socialisti, ma in cui erano presenti anche socialdemocratici, repubblicani e liberali) dalla DC, il cui segretario dell’epoca Amintore Fanfani si era messo a capo dello schieramento antidivorzista, composto anche da varie associazioni cattoliche e dal Movimento Sociale Italiano (nonostante il suo segretario Giorgio Almirante avesse divorziato dalla prima moglie in Brasile) e con l’appoggio dichiarato delle gerarchie ecclesiastiche.

Fanfani aveva scelto di condurre sul referendum una battaglia campale, confortato in questo da tutto il suo partito, anche se la sinistra DC e il governo (compreso il presidente del Consiglio Mariano Rumor) rimasero in disparte durante la campagna referendaria. L’esito della consultazione fu perciò interpretato al di là del merito della questione come una dura sconfitta personale per Fanfani, visto come l’attore principale del fronte del «sì»,[74] che aveva cercato di sfruttare la campagna referendaria anche a fini prettamente politici,[75] convinto che un’eventuale vittoria abrogazionista avrebbe frenato l’allora ascesa del PCI di Enrico Berlinguer, fra i maggiori esponenti del fronte del «no». La sconfitta antidivorzista rappresentò di fatto l’inizio della caduta politica di Fanfani, tra i più longevi protagonisti della Prima Repubblica. La successiva débâcle democristiana alle elezioni regionali del 1975 lo costringerà a lasciare la carica di segretario a Benigno Zaccagnini.[74]

La vittoria del «no» al referendum convinse la maggioranza del PSI che i tempi erano maturi per l’alternativa di sinistra, ovvero per l’ingresso al governo del PCI con i socialisti e i partiti laici minori.

Differenze ideologiche e politiche interne[modifica | modifica wikitesto]

Nel luglio 1972 aderisce al PSI la gran parte degli esponenti del Movimento Politico dei Lavoratori (formazione politica di cattolici di sinistra candidatasi autonomamente alle elezioni politiche del 1972, raggiungendo lo 0,36% di voti alla Camera senza eleggere alcun deputato), tra cui Livio LaborLuigi CovattaGennaro Acquaviva e Marco Biagi (la corrente di sinistra dell’MPL promuove invece la nascita di Alternativa Socialista, poi confluita nel PdUP).

Tutti questi passaggi e queste scissioni danno un’idea del travaglio politico del PSI di quegli anni, periodo nel quale convivono nel partito due anime, ovvero una tendente a una maggiore coesione con il PCI (con l’idea che il PSI non sarebbe mai più andato al governo senza il PCI) e un’altra tendente a perseguire una politica di riforme progressive sulla scia dei partiti della socialdemocrazia europea.

All’epoca tra le file socialiste si fronteggiavano le posizioni di Francesco De Martino, tendente a intensificare i legami con i comunisti nella prospettiva dell’alternativa di sinistra, quelle di Giacomo Mancini, incline a ritagliare un ruolo autonomo del PSI tra democristiani e comunisti, quelle di Riccardo Lombardi, che auspicava un governo con un PCI socialdemocratizzato e quelle degli autonomisti, sostenitori delle riforme progressive e quindi più vicini a un’idea di tipo socialdemocratico in senso saragattiano (questi ultimi erano in minoranza quando Bettino Craxi venne eletto segretario).[76]

Elezioni amministrative del 1975[modifica | modifica wikitesto]

Le elezioni amministrative e regionali del 15-16 giugno 1975 vedono per la prima volta al voto i diciottenni a seguito dell’entrata in vigore della legge di abbassamento della maggiore età da 21 a 18 anni. L’affluenza alle urne è del 92,8% degli aventi diritto. Si registra un forte avanzamento del PCI, ora al 33% e a soli 3 punti dalla DC. Il PCI governa in cinque regioni (EmiliaToscanaUmbriaPiemonte e Liguria). Nascono le cosiddette «giunte rosse» nelle prime quattro città italiane:

a cui si aggiunge nel 1976

Il PSI ottiene modesti risultati, ma grazie agli accordi con il PCI riesce a ottenere i sindaci di Milano e Genova e importanti incarichi assessorili nelle giunte rosse.

XL Congresso a Roma[modifica | modifica wikitesto]

Bettino Craxi al XL Congresso del PSI a Roma

Nel marzo 1976 si tenne a Roma il XL Congresso del PSI. Le correnti socialiste erano cinque:

La maggioranza venne costituita da un’alleanza fra De Martino e Mancini e prevedeva la nomina del primo alla carica di segretario.

Alternativa di sinistra[modifica | modifica wikitesto]

Sotto la guida di De Martino il PSI ritira l’appoggio ai governi a guida democristiana[77] con l’obiettivo di supportare la crescita elettorale del PCI al fine di arrivare a un esecutivo guidato dalle sinistre. De Martino disse che il PSI aveva una funzione politica a termine, cioè permettere la completa maturazione del PCI fino alla sua partecipazione diretta al governo. Una volta raggiunta tale maturazione, il PSI avrebbe esaurito la propria funzione.

Alle elezioni politiche del 1976 dopo una campagna elettorale svolta all’insegna dell’alternativa di sinistra alla DC ottenne gli stessi risultati elettorali del 1972, il punto più basso di sempre mai raggiunto dal PSI, con un’imprevista flessione negativa rispetto al precedente turno di elezioni amministrative e lo squilibrio elettorale col PCI che sfiora il 25%. In ogni caso dopo le elezioni politiche proprio grazie al PSI la sopraddetta alternativa era stata resa possibile in quanto vi fu il «non dissenso » di PSDIPRI e DP, ma non l’assenso del PCI, fisso nella sua politica del «compromesso storico».

Segreteria Craxi[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Bettino Craxi e Craxismo.

Elezione di Craxi a segretario politico[modifica | modifica wikitesto]

In questo contesto il comitato centrale del PSI, tenutosi all’Hotel Midas di Roma nel luglio 1976, ritira la fiducia a De Martino, eleggendo segretario nazionale l’allora quarantenne Benedetto Craxi, detto Bettino, in quel momento vicesegretario e membro di punta della corrente autonomista di Pietro Nenni. Nuovo vicesegretario sarà il dirigente siciliano Salvatore Lauricella della corrente demartiniana.

La scelta di Craxi, considerato un segretario di transizione in quanto esponente della corrente minoritaria del PSI, è legata anche a una rivolta generazionale dei cosiddetti «quarantenni», ovvero i luogotenenti dei vecchi leader del partito: Enrico Manca e il citato Lauricella della componente demartiniana, Claudio SignorileFabrizio Cicchitto e Gianni De Michelis della componente di sinistra lombardiana, con il beneplacito dell’anziano leader calabrese Giacomo Mancini.

Craxi, conscio della necessità di risvegliare l’orgoglio dei socialisti per garantire la permanenza in vita del Partito (primum vivere), inizia una politica di disturbo della strategia berlingueriana del compromesso storico, riproponendo con forza la proposta dell’alternativa di sinistra (il che gli garantisce il consenso della componente di sinistra del PSI), ma sulla base di una politica di autonomia dalla tradizione social-comunista, attaccando i legami ancora forti del PCI con l’Unione Sovietica e cercando un costante collegamento con i partiti socialisti e socialdemocratici europei.

XLI Congresso a Torino[modifica | modifica wikitesto]

Dal 30 marzo al 2 aprile 1978 si tiene a Torino il XLI Congresso del PSI in cui Craxi riuscì a farsi rieleggere segretario col 65% di voti, percentuale mai raggiunta prima da un segretario socialista, grazie al consolidamento del pur innaturale asse tra la sua corrente Autonomia Socialista di ispirazione nenniana e la sinistra lombardiana rappresentata da Claudio Signorile e Gianni De Michelis e con la benedizione dell’ex segretario Giacomo Mancini. L’opposizione era guidata dall’ex demartiniano Enrico Manca.

Il Congresso discute Il progetto socialista, un documento in cui si prefigura un’Italia volta ad un socialismo liberale e libertario, basato sull’affermazione dei diritti civili e il superamento della legislazione d’emergenza dovuta all’offensiva terroristica.Il rapimento del presidente della DC Aldo Moro nell’edizione straordinaria del quotidiano la Repubblica del 16 marzo 1978

Il Congresso infatti si svolge proprio durante i drammatici giorni del sequestro del leader democristiano Aldo Moro rapito il 16 marzo 1978 a Roma dalle Brigate Rosse. Nella sua replica al termine dei lavori congressuali Craxi si distacca dai sostenitori più intransigenti della ragion di Stato, affermando che essendo in gioco una vita umana non dovrebbero essere lasciati cadere alcuni margini ragionevoli di trattativa. Craxi respinge anche polemicamente le richieste avanzate dal leader repubblicano Ugo La Malfa riguardo alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone (la proposta di La Malfa era che il Parlamento eleggesse Moro prigioniero delle Brigate Rosse nuovo capo dello Stato) e ricorda al segretario repubblicano di essere stato uno dei grandi elettori di Leone.

Tentativi di salvare la vita di Aldo Moro[modifica | modifica wikitesto]

Nei giorni successivi Craxi intensifica gli sforzi per favorire una «soluzione umanitaria» che consentisse la liberazione dello statista democristiano senza intavolare una vera e propria trattativa con il cosiddetto «partito armato», ma ipotizzando un atto autonomo di clemenza dello Stato nei confronti di un esponente brigatista non macchiatosi di omicidi. Tutto il PSI, con alcune eccezioni come quella dell’ex presidente della Camera Sandro Pertini, appoggiò questa linea del segretario, che si rifaceva alla tradizione del cosiddetto «umanesimo socialista» (si pensi alla più importante istituzione sociale milanese, la Società Umanitaria, risalente ai primi del XX secolo, alla quale collaborarono Turati, Osvaldo Gnocchi Viani e Emilio Caldara, primo sindaco socialista di Milano).

Craxi fu l’unico leader politico insieme ad Amintore Fanfani e Marco Pannella a dichiararsi contrario all’intransigente «linea della fermezza» che arrivava a sostenere la non riferibilità a Moro delle lettere inviate dallo statista democristiano dalla «prigione del popolo» brigatista perché plagiato dallo stato di soggezione fisica, morale e psicologica dovuto alla prigionia.

Il PSI si attirò addosso le pesanti critiche del cosiddetto «partito della fermezza», guidato innanzitutto dai comunisti e dal direttore del quotidiano La Repubblica Eugenio Scalfari, peraltro ex-parlamentare socialista.[78].

La politica si divise in due fazioni. Da una parte vi era il fronte della fermezza composto dalla DC, dal PSDI, dal PLI e con particolare insistenza dal Partito Repubblicano (il cui leader Ugo La Malfa proponeva il ripristino della pena di morte per i terroristi), che rifiutava qualsiasi ipotesi di trattativa; PCI e MSI, anche se con atteggiamenti diversi, erano gli estremi del «no» alla trattativa.[79] Nel fronte possibilista spiccavano Bettino Craxi e la gran parte dei socialisti, i radicali, la sinistra non comunista, i cattolici progressisti come Raniero La Valle e uomini di cultura come Leonardo Sciascia.[73] Tuttavia all’interno di entrambi i due schieramenti vi erano delle posizioni in dissenso con la linea ufficiale. Per esempio, una parte della DC era per il dialogo, tra cui il presidente della Repubblica Giovanni Leone (pronto a firmare eventuali richieste di grazia) e il presidente del Senato Amintore Fanfani, nel PCI Umberto Terracini era per un atteggiamento «elastico», tra i socialdemocratici Giuseppe Saragat era in dissenso dalla posizione ufficiale del segretario Pier Luigi Romita mentre tra i socialisti Sandro Pertini dichiarò di non voler assistere al funerale di Moro, ma neppure a quello della Repubblica.[73]

Secondo il fronte della fermezza la scarcerazione di alcuni brigatisti avrebbe costituito una resa da parte dello Stato, non solo per l’acquiescenza a condizioni imposte dall’esterno, ma per la rinuncia all’applicazione delle sue leggi e alla certezza della pena. Una trattativa coi rapitori inoltre avrebbe potuto creare un precedente per nuovi sequestri, strumentali al rilascio di altri brigatisti o all’ottenimento di concessioni politiche e più in generale una trattativa con i terroristi avrebbe rappresentato un riconoscimento politico delle Brigate Rosse mentre i metodi intimidatori e violenti e la non accettazione delle regole basilari della politica ponevano il terrorismo al di fuori del dibattito istituzionale, indipendentemente dal merito delle loro richieste.[80]

Prevalse il primo orientamento, anche in considerazione del gravissimo rischio di ordine pubblico e di coesione sociale che si sarebbe corso presso la popolazione, in particolare presso le forze dell’ordine, che in quegli anni avevano pagato un tributo di sangue altissimo a causa dei terroristi, anche perché durante i due mesi del sequestro Moro le Brigate Rosse continuarono a spargere sangue nel Paese, uccidendo gli agenti di custodia Lorenzo Cotugno (a Torino, l’11 aprile) e Francesco Di Cataldo (a Milano, il 20 aprile).[73]

Tuttavia papa Paolo VI e il segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim continuarono ad appellarsi alle Brigate Rosse per la liberazione del prigioniero mentre Craxi, sulla scorta di una risoluzione della direzione del suo partito,[81] incaricò Giuliano Vassalli di trovare nei fascicoli pendenti il nome di qualche brigatista che non si fosse macchiato di atti di sangue e che potesse essere rilasciato per motivi umanitari.[82]

Il tragico epilogo con cui si concluse il sequestro Moro anticipò comunque una presa di posizione definitiva da parte del mondo politico.[83]

Adozione del simbolo del garofano[modifica | modifica wikitesto]

Già a partire dal 41º congresso il PSI si rinnova nell’immagine e nell’ideologia, con il nuovo simbolo del partito che diventa (accanto a falce, martello, sole e libro del simbolo precedente) il garofano rosso, in omaggio alla tradizione iconografica ottocentesca pre-bolscevica e alla rivoluzione portoghese dei garofani del 1974.

Il simbolo del garofano rosso
Sotto la segreteria Craxi avviene un mutamento anche esteriore dei simboli del partito.Il simbolo del garofano appare al XLI congresso del PSI del 1978Inaspettatamente alle spalle della tribuna del XLI Congresso del PSI a Torino nel marzo 1978 comparve un enorme garofano rosso, simbolo che faceva parte della tradizione socialista italiana già prima del 1917, che relegava in basso in secondo piano la falce e martello su libro e sole nascente.I garofani rossi nel manifesto pro abbonamento all’Avanti! del 1898Gabriele Galantara, tessera del Partito Socialista Italiano del 1905 con i garofani rossiIl logo del PSI ha subito molti mutamenti nel corso della sua storia. Un primo mutamento avvenne alla fine degli anni quaranta e uno successivo nel 1971, senza però intaccare il simbolo della falce e martello.In occasione del 1º maggio 1973 il grafico di fiducia del PSI Ettore Vitale realizzò per il manifesto del partito dedicato alla festa dei lavoratori l’immagine di un pugno chiuso che stringe un garofano rosso in orizzontale. Essa venne poi utilizzata come logo del XL Congresso socialista, tenutosi nel febbraio 1976 a Roma. L’immagine recuperava vari stereotipi: il garofano rosso o la rosa rossa del socialismo ottocentesco, il pugno chiuso della tradizione comunista e anarchica, il fiore rosso (garofano o rosa) nel pugno simbolo storico dei partiti socialdemocratici del Nord Europa.Murale commemorativo della rivoluzione dei garofani in PortogalloSimbolo del Partito Socialista franceseNel frattempo nel 1974 in Portogallo c’era stata la rivoluzione dei garofani mentre nel 1975 i socialisti francesi avevano scelto un nuovo simbolo che vede un pugno stringere una rosa rossa, adottato all’epoca anche dai socialdemocratici tedeschi, dai socialisti spagnoli e dall’Internazionale Socialista. In Italia il simbolo della rosa nel pugno era stato adottato dai radicali e quindi non era disponibile per il rinnovato PSI a guida craxiana. Fu così che nel 1978 al XLI Congresso socialista di Torino venne presentato un nuovo simbolo, ideato ed eseguito dall’artista siciliano Filippo Panseca[84] dove campeggiava un garofano rosso enorme, a danno di sole, falce, martello e libro, rimpiccioliti in basso.Bettino Craxi mostra il nuovo simbolo del PSI, utilizzato tra il 1978 e il 1986Successivamente venne approvato ufficialmente un nuovo simbolo, modificato rispetto a quello presentato a Torino, in cui convivevano in maniera abbastanza equilibrata il garofano rosso e sole, falce, martello e libro, con la scritta Partito Socialista – PSI.Bettino Craxi al Congresso di Verona del 1984Il simbolo del PSI con il garofano nella forma utilizzata tra il 1986 e il 1993 con la scritta Partito Socialista – PSI sostituita da quella Unità Socialista – PSI nel 1990Il simbolo mutò nuovamente nel 1986, quando il completamento del percorso di allontanamento dal marxismo fu sancito visivamente dal definitivo abbandono di sole, libro, falce e martello, che erano rimasti alla base dell’emblema del PSI. Nel 1990 la scritta Partito Socialista – PSI venne sostituita da quella Unità Socialista – PSI. Il garofano rosso sarebbe rimasto l’emblema del partito fino all’Assemblea Nazionale del 16 dicembre 1993, quando venne modificato il nome del PSI in Partito Socialista e il garofano venne sostituito da una rosa rossa. L’intenzione era quella di marcare la discontinuità del nuovo corso del PSI rispetto alla precedente gestione craxiana, collegandosi alla realtà del socialismo e della socialdemocrazia europea: da qui la decisione di eliminare la dizione Italiano dal nome e di inserire nel simbolo la rosa del Partito del Socialismo Europeo. Mantengono il simbolo della rosa nel pugno il partito socialista francese e quello albanese. La rosa rossa in varie modalità grafiche è presente inoltre nei simboli del Partito del Lavoro olandese, del Partito Socialista portoghese, del Partito Laburista inglese, del Partito Socialdemocratico romeno e del Partito Socialdemocratico svedese.Simbolo del Partito Socialista Italiano ricostituito nel 2007Seguendo la nuova simbologia del Partito socialdemocratico tedesco, il Partito del Socialismo Europeo ha poi trasformato il suo simbolo in un quadrato rosso, adottato anche dal rinnovato PSI, che attraverso molte variazioni grafiche ha comunque mantenuto la rosa stilizzata e ha aggiunto in basso una banda tricolore.

Il garofano sarebbe rimasto per quindici anni l’emblema del nuovo corso socialista in Italia.Sandro Pertini al 41º congresso nazionale del PSI a Torino il 30 marzo 1978

Elezione di Sandro Pertini a presidente della Repubblica[modifica | modifica wikitesto]

L’8 luglio 1978, in seguito alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, dopo un’estenuante battaglia parlamentare Craxi riuscì a far convergere un gran numero di voti sul nome di Sandro Pertini, primo esponente del partito socialista a salire al Quirinale, che ottenne l’appoggio determinante del PCI, che riteneva l’anziano partigiano socialista non favorevole al nuovo corso craxiano in quanto legato a una concezione tradizionale della sinistra.

Revisionismo ideologico socialista, allontanamento dal marxismo e dialettica col PCI[modifica | modifica wikitesto]

Nell’agosto 1978 appare sul settimanale L’Espresso un ampio articolo dal titolo Il Vangelo Socialista, le cui idee rielaborano quelle presenti in un testo fatto pervenire a Craxi da Luciano Pellicanidocente di sociologia politica, in analogia con quello da questi già presentato in una raccolta di contributi in onore di Willy Brandt.[11][85] Il pezzo, cofirmato da Craxi, sancisce la svolta ideologica del PSI con l’apertura di un percorso culturale, distinto da quello del PCI, che prendendo le mosse da Pierre Joseph Proudhon, smarca il PSI dal marxismo, rivalutando il socialismo liberale di Carlo Rosselli. L’abbandono della concezione dottrinale del marxismo era stato già effettuato dalla SPD durante il congresso di Bad Godesberg del 1959. La stessa trasformazione avviene in seno agli altri partiti socialisti europei e negli anni 1980 si svolge così anche nel PSI.

Per acquisire credibilità a livello internazionale e candidarsi alla guida della sinistra italiana, al pari con i grandi partiti socialisti e socialdemocratici europei, il gruppo dirigente di Craxi sostenne un nuovo corso che liberasse il partito dal marxismo,[86] secondo i craxiani ormai non più al passo di una realtà sociale ed economica del tutto diversa da quella ottocentesca e della prima metà del XX secolo. Il PSI avrebbe inoltre dovuto dimenticare il suo ruolo di ponte tra DC e PCI e andare all’assalto per demolirlo del compromesso storico.[87]

Il nuovo corso socialista avrebbe anche dovuto chiarire che il capitalismo, sistema economico-politico che i socialisti autonomisti craxiani preferivano chiamare «di libero mercato», fosse perfettamente compatibile con i propri valori.[88] Sotto la sigla del Lib/Lab, nome del saggio redatto da Bettiza e Intini nel 1979, il PSI e L’Avanti! lanciarono un dibattito con personalità del mondo liberalerepubblicano e laico come Enzo BettizaGiovanni Spadolini e Massimo Pini, cercando di rendere popolare tra i militanti socialisti, attraverso la propaganda e la divulgazione, non più soltanto la socialdemocrazia, ma con un ulteriore passo avanti il liberalsocialismo,[88] dal momento che ancora ai tempi del Midas l’accusa di socialdemocrazia appariva infamante a molti dentro al PSI.[89] Da allora il termine «liberalsocialismo» entrò stabilmente nel linguaggio del PSI, significando che sempre secondo i craxiani tra il socialismo e il libero mercato non esisteva nessuna contraddizione e ponendo così la base per la collaborazione nei futuri governi di Quadripartito e di Pentapartito.[90]

Pertanto già nei primi mesi della segreteria Craxi ci fu l’iniziativa di un revisionismo e rinnovamento ideologico del partito, di cui Luciano Pellicani, che all’epoca era il direttore della rivista socialista Mondo Operaio, ne fu l’anima.[91] Con la rivalutazione del pensiero socialista libertario rispetto al marxismo, che culminò nel saggio di Craxi su L’Espresso nel quale si sottolineava tutte le ragioni che conducevano a una sostanziale differenza tra comunismo burocratico e totalitario e socialismo democratico e liberale, condannando senza appello il leninismo: «La profonda diversità dei «socialismi» apparve con maggiore chiarezza quando i bolscevichi si impossessarono del potere in Russia. Si contrapposero e si scontrarono due concezioni opposte. Infatti c’era chi aspirava a riunificare il corpo sociale attraverso l’azione dominante dello Stato e c’era chi auspicava il potenziamento e lo sviluppo del pluralismo sociale e delle libertà individuali. […] La meta finale è la società senza Stato, ma per giungervi occorre statizzare ogni cosa. Questo è, in sintesi, il grande paradosso del leninismo. Ma come è mai possibile estrarre la libertà totale dal potere totale? […] [Invece si] è reso onnipotente lo Stato. […] Il socialismo non coincide con lo stalinismo, […] è il superamento storico del pluralismo liberale, non già il suo annientamento».[92]

Ciò non fece che acuire i contrasti con il PCI, già manifestatisi aspramente sulla gestione del sequestro Moro.

Craxi si presentò agli italiani in una maniera totalmente nuova in quanto da un lato prese esplicitamente le distanze dal leninismo rifacendosi a forme di socialismo non autoritario[14] e dall’altro si mostrò attento ai movimenti della società civile e alle battaglie per i diritti civili, sostenute dai radicali, curò la propria immagine attraverso i mass media e mostrò di non disdegnare la politica-spettacolo.

Nello stesso tempo la gestione del PSI cominciò ad essere accentrata nelle mani del leader, «il partito di Craxi», a cui tutti i notabili ormai si richiamavano. Questo provocò quella che fu detta una mutazione genetica nella base del Partito Socialista Italiano e nel suo elettorato, attratto più dalle capacità leaderistiche di Craxi che dal partito stesso. Con conseguenze che dopo le vicende di Tangentopoli saranno fatali per la sinistra italiana, che alle Eeezioni politiche del 1994 porteranno l’elettorato socialista craxiano, ma anche molti dirigenti socialisti tra i quali Gianni Baget BozzoMargherita BoniverRenato BrunettaFabrizio CicchittoFranco Frattini e la stessa Stefania Craxi, ormai imbevuti di anticomunismo e antisinistrismo, ad abbandonare rapidamente il PSI e a riversarsi nello schieramento di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi.[93][94]

Scomparsa di Pietro Nenni[modifica | modifica wikitesto]

Bettino Craxi interviene alla manifestazione funebre per Pietro Nenni

Il primo gennaio 1980 alle 3:20 del mattino muore il mentore e padre spirituale di Craxi, il leader del socialismo italiano Pietro Nenni.

Gli subentra nella carica di presidente del partito Riccardo Lombardi, che la manterrà per due anni fino ad un contrasto con la segreteria Craxi che lo porterà alle dimissioni.

Alleanza di Pentapartito e presidenza del Consiglio a Craxi[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1980, vista l’indisponibilità del PCI a perseguire l’alternativa di sinistra e la scelta della maggioranza della DC di non proseguire nei cosiddetti «governi di larghe intese», con la partecipazione dei comunisti alla maggioranza di governo (ma senza la presenza di loro rappresentanti nell’esecutivo), si inaugura la stagione dei governi di Pentapartito, costituito dal PSI insieme a DCPSDIPLI e PRI.Giuramento del 1º governo Craxi il 4 agosto 1983 davanti al presidente della Repubblica Sandro Pertini

Dopo i primi due governi a presidenza laica guidati dal repubblicano Giovanni Spadolini nel 1981 e nel 1982, nel 1983 nasce il primo governo a guida socialista e Craxi è il primo presidente del Consiglio socialista della storia d’Italia.

Avviò una campagna per la governabilità assumendo toni sempre più decisionisti, con quella che nei giornali sarà chiamata la «grinta» di Craxi. Vi fu anche chi la presentò come l’unica forma di alternativa fino a quando vi fosse stata una «democrazia bloccata» dalla presenza del più grande partito comunista dell’Occidente.[95]

Riferendosi alla prima elezione per acclamazione mai avvenuta per un segretario del PSI (congresso di Verona, 1984), lo storico Giuseppe Tamburrano così criticò in seguito i modi di gestione di Craxi del partito e delle relazioni con il gruppo dirigente: «Nel PSI vi fu il capo investito direttamente dal Congresso (con una riforma dello Statuto proposta e preparata da me, la quale però prevedeva anche la contestuale elezione congressuale della direzione per bilanciare il potere del leader che fu ovviamente rinviata). Bettino, che aveva oltre all’investitura congressuale un personale carisma, dispensava con un sistema di tipo feudale benefici (cariche) in cambio di risorse e di voti, nel partito e soprattutto alle elezioni. Si crearono così dei veri e propri potentati con un potere relativamente autonomo (come i signori del sistema feudale)».[96]

Elezioni amministrative del 1985 ed elezioni politiche del 1987[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1986 il PSI rimuove definitivamente la falce, il martello, il sole e il libro dal proprio simbolo per rimarcare la sua intenzione di costruire una sinistra alternativa e profondamente riformista guidata dal PSI e non più egemonizzata dal PCI.

L’elettorato premia questa scelta con la percentuale di consensi che sale dal 9,8% ottenuto nel 1979 al 14,3% nel 1987. Il PSI però è ancora ben lontano dal rappresentare una guida della sinistra alternativa al PCI, il quale ottiene nel 1987 il 26,6% dei voti.

Fine del comunismo e progetto di Unità Socialista[modifica | modifica wikitesto]

Con la caduta del muro di Berlino avvenuta nel 1989 e la fine del regime comunista nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’ex-blocco sovietico, reputando imminente una conseguente crisi del PCI in Italia, Craxi lancia l’idea dell’Unità Socialista allo scopo di superare la scissione di Livorno del 1921 determinata all’epoca proprio dai diktat sovietici e di ricostituire l’unità della sinistra italiana, inserendola nella tradizione del socialismo democratico dell’Europa occidentale.

La proposta è rivolta al PSDI, essendo ormai superate le motivazioni politiche della scissione di Palazzo Barberini del 1947, e alla componente migliorista del PCI, auspicando che quest’ultima riesca a convincere la maggioranza del partito ad aderire al progetto.

Craxi dimostrerà così una certa lungimiranza in quanto il PCI, perso il suo storico riferimento a livello internazionale, si divide tra coloro che daranno vita al più moderato e riformista Partito Democratico della Sinistra e i militanti che non accettando di non definirsi più comunisti confluiranno nel Partito della Rifondazione Comunista.

Anche i primi riscontri elettorali da parte del PSI paiono incoraggianti, poiché alle elezioni regionali del 1990 i socialisti si portano al 15,3% come media nazionale.

In questo periodo l’immagine del partito viene quasi a coincidere con quella del suo leader, tanto che molti politici, scrittori e giornalisti parleranno di «craxismo».[97][98][99]

La vita interna al partito registra una dialettica sempre più asfittica e la gestione amministrativa, nella quale Rino Formica aveva abbandonato il suo ruolo di tesoriere a favore di Vincenzo Balzamo, vede una preponderanza del segretario politico, riflesso della sua stragrande maggioranza all’interno del congresso. Il ruolo di garante tra le correnti del segretario amministrativo[100] viene meno con la totalitarietà del consenso craxiano e il segretario amministrativo si riduce a mero esecutore delle direttive che sempre più puntualmente gli rivolge il segretario politico.

Crisi e messa in liquidazione[modifica | modifica wikitesto]

In seguito allo scandalo di Tangentopoli del 1992, sollevato dalla magistratura milanese con l’inchiesta denominata mani pulite che coinvolse pesantemente tutti i partiti della Prima Repubblica, il partito entrò in crisi e dopo le dimissioni di Craxi cambiò rapidamente diversi segretari fino al suo definitivo sfaldamento in vari partitini e movimenti.

Tangentopoli e governo Amato[modifica | modifica wikitesto]

Giuliano Amato

Alle elezioni politiche dell’aprile 1992 il PSI raccolse il 13,5% dei consensi, perdendo lo 0,65% rispetto alle elezioni precedenti e 1,8% rispetto alle elezioni regionali del 1990, con l’elezione di 92 deputati e 49 senatori.

Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro chiese a Craxi come segretario del PSI una terna di candidati per l’incarico di presidente del Consiglio e ne ricevette l’indicazione di Amato, De Michelis o Martelli, così proposti «non solo per motivi di ordine alfabetico».[101] La presidenza del Consiglio venne così affidata a Giuliano Amato, ma il governo durò meno di un anno, indebolito dalle critiche sul finanziamento pubblico dei partiti e soprattutto dalla sconfitta dei partiti di governo ai referendum del 18 e 19 aprile 1993 promossi dai Radicali. In particolare i cittadini si espressero a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti con una maggioranza del 90,30%.

Al logoramento seguì il crollo del sistema, puntellato fino alla caduta del muro di Berlino dalla guerra fredda, ma che tolto questo sostegno iniziò ad andare in pezzi.[102] Già durante tutto il decennio precedente alcuni dirigenti del PSI erano stati coinvolti, assieme ad esponenti di altri partiti, funzionari pubblici e imprenditori, in vicende legate a prassi gestionali imputate da anni alla generalità del sistema dei partiti: tra gli scandali che diedero luogo ad inchieste penali a carico di esponenti del partito vi furono quello di Torino (caso Zampini del febbraio 1983, con un primo coinvolgimento dell’esponente nazionale Giusi La Ganga), quello di Savona (caso Teardo del giugno 1983, con l’arresto dell’esponente socialista ligure per associazione a delinquere finalizzata ad intimidire gli imprenditori renitenti alla «mazzetta»), quello di Brindisi (caso Trane del giugno 1987, con l’arresto del segretario del ministro dei Trasporti, Claudio Signorile, per tangenti che riguardavano l’aeroporto di Venezia e alcuni scali ferroviari), quello di Viareggio (nell’estate del 1987, con l’arresto per tangenti di alcuni amministratori locali compreso Walter De Ninno, funzionario della segreteria nazionale del PSI) e quello di Trento (il giudice Carlo Palermo nel giugno del 1983 iniziò con alcune perquisizioni ad indagare su forniture d’armi all’Argentina e a proposito della cooperazione in Somalia e Mozambico, in cui sarebbero stati coinvolti Paolo Pillitteri e Ferdinando Mach di Palmstein).

Furono individuati dal vertice craxiano come i responsabili delle vicende di Tangentopoli il «partito dei giornali» con AgnelliDe Benedetti e Gardini che li controllavano quasi completamente, il «partito dei magistrati» con il pool di mani pulite che si materializzò a Roma e a Milano, coadiuvati dal PCI-PDS, che avrebbe agito con l’intento di liquidare il PSI e soprattutto Craxi, per prenderne il posto in Italia e nell’Internazionale Socialista[103]Massimo D’Alema avrebbe confermato questo disegno nel libro-intervista D’Alema: la prima biografia del segretario del PDS, edito da Longanesi nel 1995:

«Dovevamo cambiare nome. Non avevamo alternative. Eravamo come una grande nazione indiana chiusa tra le montagne, con una sola via d’uscita, e lì c’era Craxi con la sua proposta di unità socialista. Come uscire da quel canyon? Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un Paese europeo occidentale. Quindi rappresentava lui la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affaristico avvinghiato al potere democristiano. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista in Italia.[104]»

Nel maggio 1992 arrivarono i primi avvisi di garanzia a molti parlamentari di vari partiti, tra cui spiccavano i nomi di due ex sindaci socialisti di Milano, tra cui Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, cognato di Craxi.

Il 2 settembre 1992 il deputato socialista Sergio Moroni, raggiunto da due avvisi di garanzia per ricettazionecorruzione e violazione della legge sui finanziamenti ai partiti, si suicidò, lasciando una lettera-testamento indirizzata all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, nella quale denunciava:

«[S]tiamo vivendo mesi che segneranno un cambiamento radicale sul modo di essere nel nostro paese, della sua democrazia, delle istituzioni che ne sono l’espressione. Al centro sta la crisi dei partiti (di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle “decimazioni” in uso presso alcuni eserciti, e per alcuni versi mi pare di ritrovarvi dei collegamenti. Né mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la “pulizia”. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e i loro sistemi di finanziamento. C’è una cultura tutta italiana nel definire regole e leggi che si sa non potranno essere rispettate, muovendo dalla tacita intesa che insieme si definiranno solidarietà nel costruire le procedure e i comportamenti che violano queste regole.»

L’amministratore del partito Vincenzo Balzamo venne colpito da infarto miocardico esteso e operato d’urgenza il 26 ottobre[105] dopo aver ricevuto avvisi di garanzia per ricettazionecorruzione e violazione della legge sui finanziamenti ai partiti. Balzamo morì all’Ospedale San Raffaele di Milano la mattina del 2 novembre 1992 all’età di 63 anni.[106]

Intanto Claudio Martelli prese definitivamente le distanze da Craxi, fondando all’interno al PSI il gruppo di Rinnovamento Socialista.

Il 26 novembre 1992 l’Assemblea Nazionale del PSI si divise per la prima volta dopo undici anni di sostanziale unanimismo craxiano. Vennero presentati tre documenti: da parte di Giuseppe La Ganga a sostegno della piena solidarietà a Craxi, da Mauro Del Bue a sostegno delle posizioni di Martelli, e da Valdo Spini. Al primo andarono 309 voti (63%), al secondo 160 (33%) e a Spini 20 (4%). Craxi restò ancora saldamente alla guida del partito, tuttavia, per la prima volta, con una maggioranza più ristretta, a causa della defezione del gruppo di Martelli.

Nel dicembre del 1992 il segretario del PSI ricevette il suo primo avviso di garanzia.

Segreterie Benvenuto e Del Turco[modifica | modifica wikitesto]

Il 26 gennaio 1993 i «quarantenni» del partito, organizzati da poco nella corrente Alleanza Riformista, promossero la manifestazione nazionale Uscire dalla crisi. Costruire il futuro. Ad aprire la manifestazione fu il Presidente della Regione Emilia-Romagna Enrico Boselli.

Il 31 gennaio fu invece il gruppo di Valdo Spini a promuovere l’assemblea aperta Il rinnovamento del PSI.

L’11 febbraio 1993 Craxi si dimise da segretario del PSI, dopo rivelazioni sul conto protezione che lo coinvolgevano, insieme al suo ex delfino Claudio Martelli, nell’accusa di bancarotta fraudolenta.

Lo stesso Martelli in quel momento era in lizza per succedere a Craxi come segretario, ma la notizia dell’avviso di garanzia lo spinse a dimettersi dal governo e dal PSI.

All’Assemblea Nazionale del 12 febbraio venne quindi eletto segretario l’ex-segretario nazionale della UIL Giorgio Benvenuto, battendo il candidato alternativo Valdo Spini che ricevette 223 voti (42%). Presidente del partito fu eletto Gino Giugni.

Il 22 aprile 1993 il Governo Amato, falcidiato dalle continue dimissioni di ministri e sottosegretari, man mano che questi venivano raggiunti da avvisi di garanzia, annunciò le dimissioni.

Gli successe il 28 aprile 1993 il Governo Ciampi che, inizialmente, vide anche la partecipazione di tre ministri post-comunisti del Partito Democratico della Sinistra.

Il 29 aprile 1993, dopo una veemente autodifesa di Craxi, che tra l’altro chiamò nuovamente in causa tutti i suoi colleghi parlamentari, la Camera dei Deputati negò l’autorizzazione a procedere contro il premier socialista. Il 30 aprile 1993, subito dopo una manifestazione a Roma in piazza Navona per contestare il voto parlamentare in favore di Craxi, nella quale intervennero il segretario del PDS Achille OcchettoFrancesco Rutelli all’epoca capogruppo alla Camera della Federazione dei Verdi e l’ex-magistrato Giuseppe Ayala, all’epoca deputato eletto nella lista del Partito Repubblicano Italiano, che incitarono i presenti alla protesta, avvenne la contestazione pubblica in largo Febo, davanti all’uscita dall’Hotel Raphael contro l’ex Presidente del Consiglio, con il famoso lancio di monetine ed i cori irridenti all’indirizzo di Craxi.

Dopo appena cento giorni dalla sua nomina a Segretario del PSI, durante i quali il 4 maggio aveva ottenuto dall’esecutivo del PSI che gli inquisiti fossero sospesi da ogni attività di partito, Benvenuto si dimise, anche a causa del continuo ostruzionismo degli ultimi craxiani al suo progetto di rinnovamento del PSI. Gli veniva rimproverato di voler abbandonare Craxi al suo destino, proprio nel momento di maggior attacco nei suoi confronti da parte del PDS, ovvero quel partito con cui egli avrebbe voluto che il PSI si alleasse.

Anche Giugni si dimise, ma venne riconfermato nel suo ruolo di Presidente del PSI.

Il 28 maggio l’Assemblea nazionale elesse l’ex-segretario nazionale aggiunto della CGIL Ottaviano Del Turco nuovo segretario nazionale del PSI. Il gruppo di Spini presentò un documento alternativo.

Il giorno dopo nacque il gruppo di Rinascita Socialista guidato da Benvenuto e Enzo Mattina, che via via si defilarono dal PSI. Benvenuto poi lasciò il partito e fu uno dei fondatori del movimento politico di Alleanza Democratica.

Nelle elezioni amministrative del 6 giugno 1993 molti voti passarono dai partiti tradizionali alla Lega Nord e al Movimento Sociale, due partiti anti-sistema che si presentavano agli elettori come immuni dal finanziamento illecito e dalla corruzione.

Il PSI uscì decimato: a Milano, vecchia roccaforte del socialismo e poi del craxismo, il PSI candidò il sindaco uscente Giampiero Borghini che ricevette solo un catastrofico 2,2%. Nelle altre grandi città la situazione non fu migliore e a Torino, dove il PSI era in alleanza coi socialdemocratici, raccolse l’1,8%; a Catania, dove la DC faticosamente tenne, il PSI non si presentò nemmeno.

Queste elezioni, per quanto limitate a un campione non rappresentativo di tutto l’elettorato italiano, indicavano l’imminente collasso del Partito Socialista. Grazie al voto del sud, comunque, il PSI era al 5% su base nazionale. Tuttavia al nord il PSI era svanito, schiacciato da una Lega dirompente e un PDS in crescita.

Ottaviano Del Turco sconfessò la posizione difensiva di Craxi e rifiutò di raccogliere la sua indicazione di alcuni conti bancari esteri.[107] Per salvare il partito decise di non candidare tutti gli esponenti accusati di corruzione.

Il 16 dicembre si tenne l’ultima Assemblea Nazionale del PSI nella quale Craxi prese la parola. I craxiani tentarono di riprendere il controllo del partito. All’ordine del giorno c’era la proposta di cambiamento del nome e del simbolo: da PSI a PS e dal garofano alla rosa, riferimento al simbolo del socialismo europeo. L’intervento di Craxi fu in difesa di tutti i socialisti nella sua stessa condizione di indagato o rinviato a giudizio e contro quella parte del gruppo dirigente che sosteneva di voler portare avanti una forma di rinnovamento attraverso l’emarginazione dei craxiani e l’ancoramento definitivo del partito al nascente polo progressista. La maggioranza del PSI si schierò con Del Turco con 156 voti contro i 116 pro Craxi.

Intanto il partito del garofano, già nel mirino delle inchieste giudiziarie, dovette anche affrontare una drammatica situazione finanziaria: il deficit era pari a 70 miliardi di lire ed era presente una galassia di debiti pari a circa 240 miliardi di lire. Nell’agosto 1993 il partito, per morosità, dovette lasciare la sede storica di Via del Corso, divenuta nell’ultimo periodo uno dei simboli del potere craxiano. La crisi finanziaria costrinse il PSI a chiudere le riviste storiche di Mondoperaio e Critica Sociale. Anche il quotidiano Avanti! dovette chiudere i battenti e la direzione nazionale del partito a Roma si trasferì nei locali di Via Tomacelli, già sede dell’Avanti! e del centro Mondoperaio.

Molti craxiani come Ugo IntiniMargherita Boniver e Franco Piro non condivisero le scelte di Del Turco e sostennero la nullità dell’assemblea nazionale del 16 dicembre 1993, a loro parere convocata senza il numero legale, nonché delle decisioni assunte in quella sede con la convocazione degli Stati Generali per la Costituente Socialista, riunione non prevista dallo statuto, la sostituzione del garofano con la rosa e l’apertura al PDS.

Quindi questi esponenti lasciarono il partito ed il 28 gennaio 1994 diedero vita alla Federazione dei Socialisti, che alle successive elezioni politiche si presentò congiuntamente con il PSDI dando luogo alla lista Socialdemocrazia per le Libertà.[108]

Il 29 gennaio 1994 Del Turco celebrò gli Stati Generali per la Costituente Socialista, con ospite il presidente dell’Internazionale Socialista, il francese Pierre Mauroy, affermando che il partito sarebbe rimasto a sinistra alleandosi con il Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto.[109]

Elezioni politiche del 1994 nell’alleanza di sinistra[modifica | modifica wikitesto]

In occasione delle elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994, le prime con il sistema elettorale maggioritario del Mattarellum, il PSI partecipò alla coalizione di sinistra Alleanza dei Progressisti promossa in primo luogo dagli ex comunisti del PDS, con l’indicazione come presidente del Consiglio del suo segretario Achille Occhetto, che però perse le elezioni, vinte dal nuovo partito Forza Italia fondato poco prima delle elezioni da Silvio Berlusconi, in coalizione con la Lega Nord nell’Italia settentrionale e con il Movimento Sociale Italiano nel Centro-sud dell’Italia.

Il PSI sperava di superare la soglia di sbarramento del 4% dei voti, il che gli avrebbe consentito di eleggere propri parlamentari anche nella quota proporzionale, ma raccolse solo il 2,5% dei consensi, pari a circa 800 000 voti. I socialisti riuscirono comunque a eleggere 14 deputati nei collegi uninominali per la Camera, contro i 92 eletti nella precedente legislatura del 1992 con il sistema elettorale proporzionale, oltre a 9 senatori.

I deputati del PSI, non avendo i numeri per costituire un gruppo parlamentare autonomo, entrarono a far parte del gruppo unitario di sinistra denominato Progressisti – Federativo. Al Senato invece riuscirono a costituire un gruppo autonomo, grazie all’adesione del senatore a vita Francesco De Martino, ex segretario nazionale del PSI.

La partecipazione dei socialisti nella coalizione di Occhetto non è stata comunque scontata. Durante gli anni del crollo meravigliò un’improvvisa sortita di Craxi ancora segretario, ma investito dallo sgretolamento del sistema quando disse: «Se proprio i comunisti non potranno essere fermati, abbiamo una carta di riserva. Bisogna che Berlusconi entri in politica personalmente».[110] La discesa in campo, come auspicato da Craxi, del futuro fondatore di Forza Italia e presidente del Consiglio venne confermata più tardi nel 1994 e nella imminenza delle elezioni politiche durante una telefonata a Ugo Intini di Silvio Berlusconi, dove questo disse: «Speriamo che si riesca a far ragionare Segni e che si decida a guidare uno schieramento per battere Occhetto. Se no, tenterò io direttamente».[110]

Elezioni europee del 1994 con Alleanza Democratica[modifica | modifica wikitesto]

Alle successive elezioni europee del 1994, tenutesi con il sistema proporzionale senza soglie di sbarramento, il partito creò la lista Democratici per l’Europa assieme ad Alleanza Democratica, che raccolse l’1,8% ed elesse al Parlamento europeo gli esponenti socialisti Riccardo Nencini e Elena Marinucci.

Uscita dal partito della componente laburista[modifica | modifica wikitesto]

A seguito del deludente esito delle elezioni, Del Turco rassegnò le dimissioni da segretario. Il 21 giugno 1994 il Comitato direttivo del PSI prese atto delle sue dimissioni e col voto di tutti i presenti, tranne quelli di Manca e Cicchitto, nominò Valdo Spini coordinatore nazionale, affidandogli il compito di organizzare entro il successivo mese di settembre il Congresso straordinario del partito.[111]

Tuttavia Spini, ormai convinto della necessità che il PSI dovesse cambiare completamente la propria identità, eliminando anche il nome di «Socialisti», che nell’immaginario collettivo, a causa anche del continuo insistere dei media e della satira politica sul ruolo del PSI nelle vicende di Tangentopoli, era ormai diventato sinonimo di corruzione,[112], convocò il 26 luglio 1994 una riunione per promuovere la Costituente laburista. Il 5 novembre 1994 a Firenze venne quindi costituita la Federazione Laburista, alla quale aderì la grande maggioranza dei parlamentari eletti nelle liste socialiste, che uscirono quindi dal PSI, determinando così il definitivo tracollo finanziario del Partito, privato anche del contributo mensile dei deputati e senatori socialisti.

XLVII Congresso e messa in liquidazione[modifica | modifica wikitesto]

Sede storica del PSI a Roma, via del Corso 476, divenuta sede dell’ARAN negli anni 1990

Appena una settimana dopo, il 13 novembre 1994, si tenne presso la Fiera di Roma, in un clima di forte tensione, ma anche di quasi rassegnazione, il XLVII Congresso dello storico partito del socialismo italiano, composto dai delegati socialisti che avevano deciso di non seguire Spini nel nuovo partito laburista.

Si confrontarono due posizioni: quella maggioritaria, sostenuta dall’ex-segretario del PSI Ottaviano Del Turco e da Enrico Boselli che a causa della disastrosa situazione finanziaria del partito proponeva la sua messa in liquidazione, con la nomina di un commissario liquidatore nella persona di Michele Zoppo, già liquidatore dell’Avanti! e immediatamente dopo la costituzione di una nuova formazione politica denominata Socialisti Italiani. La mozione minoritaria era contraria allo scioglimento del PSI ed era sostenuta da Fabrizio Cicchitto e da Enrico Manca, che poi diedero vita al Partito Socialista Riformista.

La maggioranza dell’Assemblea, preso atto della gravissima crisi politica e dell’insostenibile situazione finanziaria in cui versava il partito, decise la messa in liquidazione del PSI e di fatto il suo scioglimento.

Fu una scelta dolorosa, dovuta principalmente a motivi economici. L’enorme situazione debitoria del partito e lo sfaldamento del gruppo dirigente dell’epoca craxiana, il venir meno del finanziamento interno dal tesseramento e dalle contribuzioni di parlamentari e amministratori locali, fece sì che le sezioni e le sedi del PSI venissero pignorate da banche e creditori.

Lo stesso ex segretario Del Turco subì il pignoramento di alcune sue proprietà immobiliari ereditate dai genitori in Abruzzo.